Esperienze di Premorte (Esperienze Extracorporee)


Anam il Senzanome
, H. Matisse – La danza da: https://www.flickr.com/photos/ilsenzanomeanam/21549908724

Le esperienze di premorte e le esperienze extracorporee non sono la stessa cosa, ma spesso coincidono. Le esperienze di premorte, altrimenti conosciute come NDE dall’inglese Near Death Experiences, sono quelle che ci interessano maggiormente e su cui qua ci soffermeremo specificatamente. Ciononostante si faranno accenni alle esperienze extracorporee in quanto i due tipi di “fenomeni” tendono a coincidere. Fenomeni che ovviamente hanno più spiegazioni nessuna delle quali può essere quella “vera”.

Le esperienze di premorte (NDE) sono definibili come i ricordi e/o sensazioni riportate da persone che sono state dichiarate clinicamente morte ma successivamente rianimate. Si tratta di “esperienze” riportate fin dall’antichità, la cui spiegazione spesso è stata inerente all’ambito mistico-religioso. La scienza (la nuova religione dell’uomo moderno-contemporaneo) sta affrontando la questione solo da qualche decade e quindi solo di recente ha avanzato le sue ipotesi. Vedremo alcune esperienze riportate direttamente dagli interessati e cercheremo di guardarle con senso critico (“critico” in senso etimologico: dal lat. critĭcus, gr. κριτικός «atto a giudicare, decisivo», der. di κρίνω «distinguere, giudicare» ). Proprio per questo bisognerebbe sempre tenere a mente una premessa: bisognerebbe sempre vedere da dove vengono queste “esperienze”, le persone e i contesti culturali e geografici; bisognerebbe considerare chi propone (scrive, pubblica, carica in rete) e perché riporta queste suddette esperienze. Al netto di tutto ciò io ve ne presento alcune, e su esse apriremo il discorso su possibili e diversificate spiegazioni:

Una prima intervista a persona coinvolta in una simile esperienza la potete vedere a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=c-sAm7mtMA8 (caricata 17 gennaio 2017). Si tratta di una signora anziana, religiosa anche se a modo suo (come tutti). Riporta un’esperienza di premorte seguita ad un arresto cardiaco. Durante questa esperienza la signora riferisce di aver visto il suo corpo dall’esterno, di essere entrata dentro una porta dove iniziò a “volare” nel buio fino a quando vide una bellissima e attraente luce. La sensazione riportata è estremamente positiva. L’intervista è proposta da una tv di indirizzo religioso specificatamente cattolico (tv2000).

Foto di Adina Voicu da Pixabay

C’è un documentario prodotto dalla fotografa Lara Peviani che riporta delle interviste ad alcune persone che hanno avuto queste esperienze di premorte. Una raccolta di esperienze caricato in rete in data 8 giugno 2017 e visibile sul canale youtube a: https://www.youtube.com/watch?v=r0flr8aZo7A . La stessa autrice ha un sito incentrato su questo documentario: https://www.ndedocumentario.it/  . Lara Peviani è una fotografa e videomaker di Casalpusterlengo in prov. Lodi – paese che non avevo mai sentito dire prima del covid-19.

Queste che seguono sono in sintesi le interviste-casi studio raccolte nel documentario:

Un anziano signore di Napoli riporta che durante la sua esperienza di premorte (avvenuta quando aveva 46 anni) si trovò immerso in un buio “pesto” in cui ad un certo punto scorse in lontananza una luce “molto forte”, “calda”. Lui andò in direzione della luce e da essa “è venuto fuori il busto di mio padre, che era morto 32 anni prima, che mi ha preso e mi ha detto: su dammi la mano, vieni ti accompagno io“. Poi si risvegliò e riprese il dolore che durante quella “visione” era totalmente scomparso. Il senso che ne ha riportato è stato molto positivo.

Un uomo di un paesettino vicino Roma ricorda la sua esperienza avuta quando aveva cinque anni (seguita a delle complicazioni di varicella e morbillo). Ricorda un prato luminoso su cui camminava e di una intensa e attraente luce in lontananza (proveniente da sopra una collinetta) a cui si avvicinò dopo che suo nonno materno lo aveva preso per mano. Nonno materno che tra l’altro non aveva mai conosciuto in vita ma di cui era certo nell’identificarlo. Sensazione estremamente positiva.

Anziana signora di un paesettino in provincia di Varese ricorda l’esperienza avuta a 26 anni dopo essere entrata in coma susseguentemente ad aver battuto la testa in seguito ad una caduta da cavallo. Ricorda di aver visto il suo corpo sul letto dell’ospedale, ricorda di aver sentito ciò che si dicevano i medici e gli infermieri attorno a quello che ormai era il suo cadavere. Ricorda anche che poteva leggergli nella mente. Sottolinea la sensazione di grande libertà di cui era pervasa. La signora afferma di essersi sentita “finalmente” libera dal corpo. Racconta che successivamente si ritrovò davanti ad un tunnel, che ci entrò e che arrivò davanti ad una luce che “pullulava di vita“. Più questa luce le entrava dentro più sentiva “questo enorme amore che mi circondava e mi pervadeva“. “Io potevo essere tutto in quel momento. Ero l’erba, ero il legno. Ero tutto quello che esisteva. Ero ovunque. (…) A un certo punto ho avuto la consapevolezza che non potevo restare. Credo che in quel momento la mia anima ha ululato di dolore. È stato un dolore terribile.” Poi si svegliò e ricorda di aver capito che era rientrata nel suo corpo. Ritornò a provare dolore fisico (era in ospedale per una caduta da cavallo), ed iniziò a piangere. Da quell’esperienza ne ebbe una sensazione estremamente positiva tanto che non avrebbe voluto “tornare indietro”. Questa testimonianza a “primo acchito” a me pare un ricordo più “artificioso” (non vuol dire falso né tanto meno significa che sia meno “vero”. Ma più “ricostruito” dalla mente – come d’altronde si potrebbe dire di tutto. Forse la sensazione deriva dal linguaggio utilizzato, ma questa è più che altro una mia autocritica.).

Vi è la testimonianza di una infermiera di Codogno, provincia di Lodi, che riporta a sua volta le testimonianze di persone assistite durante l’esplicazione della sua professione (e a cui hanno assistito anche altri suoi colleghi). Persone a cui erano riusciti a salvare la vita in situazioni estremamente critiche, disperate. Sembrano tutte esperienze positive.

Poi si ritrova l’anziana signora vista nella precedentemente citata intervista di tv2000. L’argomento dell’intervista è ovviamente il medesimo. Si tratta dell’esperienza di premorte di una anziana signora, esperienza avvenuta quando aveva 28 anni – la signora proviene da un paesettino intorno Pisa (Calci). Non conosco gli effettivi tempi delle due interviste ma questa intervista all’interno del documentario sembra successiva. Controllando le date di “pubblicazione” delle interviste ho conferma di questa mia prima impressione (anche se le date di pubblicazioni potrebbero essere fuorvianti, magari le interviste hanno avuto tempi invertiti). Seppur “le vicende” riportate sono le medesime, in quest’ultima intervista mi sembra (considerazione mia) che la signora accentui il senso di “pace” che aveva sperimentato, oltre a porre decisamente maggior accento sul fatto che non “voleva tornare” e che si risvegliò nel letto “arrabbiata”. Sembra come che con il passare del tempo quel ricordo le venga reso (dalla sua stessa memoria) più bello. Probabilmente ciò potrebbe esser dovuto anche alle normali vicissitudini che precedono le interviste. O si potrebbe far riferimento ad una maggiore autoillusione del “cervello” a scopo di esorcizzare la paura della morte (ma questa è una considerazione esterna, forse gratuita, che riporto in quanto è una possibilità che intravede chi sta scrivendo, ovvero “io”). Le due interviste della signora sembrano “vere”, ma questa sembra essere un po’ più artificiosa della precedente (sottolineo ancora una volta che “artificioso” non è attributo ad indicare la veridicità delle parole della signora).

Sempre nel suddetto documentario vi è un uomo (sembra poco sopra i 40 anni)che parla delle sue considerazioni riguardo l’argomento delle NDE. È un medico che parla dell’ esperienza di premorte su cui nel 2007 ha discusso la sua tesi di laurea. Qua siamo in un paesettino nella provincia di Belluno. Afferma che il suo approccio alle NDE era inizialmente quello di voler spiegare queste “esperienze di pre-morte” in termini scientifici-medici. Il punto di vista di partenza con cui aveva iniziato ad indagare era quello di considerare queste esperienze nell’ottica di una perturbazione di neurotrasmettitori. Afferma di aver cambiato strada dopo aver intervistato il primo di circa 50 testimoni diretti di NDE. Riporto una considerazione che faccio prima di vedere l’intervista-testimonianza a questo medico. Rilevo che però le opinioni raccolte in questo video vanno tutte in una direzione positiva e quasi religiosa. D’altronde come nel caso della signora del paesettino intorno Pisa, la signora è fortemente religiosa non a caso la sua esperienza riportata anche a tv2000. Può essere che tutti siano così, o può essere che solo le persone fortemente religiose ne parlino in tale maniera. O può essere che questo documentario parta da una determinata ottica che poi, più o meno volontariamente, viene seguita ….  Vedendo poi questa intervista al medico di Belluno, da come parla e da come parla di questi argomenti, mi sembra di cogliere una persona tipicamente immersa in un’ottica religiosa. Oppure posso essere io condizionato in tale preconcetto. Però proprio per questa mia considerazione rilevo che non so se quando questo medico si sia avvicinato all’argomento NDE sia stato davvero “neutro” o se avesse già una prospettiva che lo guidasse (una prospettiva più o meno latente). Oppure potrei considerare che il volgere successivo ad ambiti religiosi sia quasi una conseguenza naturale per chi si avvicini (o consideri) queste esperienze. D’altronde la stessa tematica è inscindibilmente legata alle varie forme dell’essere religioso. Quindi avere attrazione per tali tematiche potrebbe essere considerato anche come una predisposizione verso una prospettiva religiosa. Questo varrebbe anche per me. Ma queste sono solo personali ipotesi.

Per ultimo il documentario riporta un’altra testimonianza. La testimonianza di un uomo maturo, insegnante di arti marziali, che ricorda la sua esperienza avuta all’età di 14 anni. Ora siamo a Mirano in provincia di Venezia. Riporta una bellissima sensazione di “pace e tranquillità” in cui si vede dal di fuori. “Era come se io fossi all’interno del tutto” (in questa parte simile alla signora di Varese), ne parla in termini molto “orientali”, così come “orientale” è la sua camicia a colletto koreano e la professione di insegnante di arti marziali. Non è una critica etica-morale ma solo una constatazione funzionale al cercare di apportare una critica (sempre in senso etimologico) alla sua testimonianza. Peraltro l’ambito orientale mi ha sempre affascinato. Da tutto ciò potrei dedurre che ognuno descriva la “sua” esperienza di premorte per quel che “realmente” è. Oppure potrei dedurre che lui sia diventato così come ora appare proprio in risposta a quell’esperienza. Anche nel suo ricordo dell’esperienza di premorte egli afferma di essere fuoriuscito dal proprio corpo e poté vedere “tutta la scena” dal di fuori. Stava bene, “la sensazione era di pace e tranquillità“. Anche lui ad un certo punto vede un’apertura, “come l’ingresso di un tunnel“. Vede un’apertura da cui fuoriesce una luce “molto forte” ma che non arrecava nessun fastidio alla vista.

Foto di Maria Adam da Pixabay

Che queste esperienze per quanto vere, per quanto positive, potrebbero anche sembrare una conferma di una loro pre-convinzione lo dimostra anche l’affermazione di quest’ultimo signore che dice letteralmente “questo ha rafforzato in me la certezza che non siamo solo fisici”. Non è che quell’esperienza gliela ha provata/fatta vedere o altro, ma ha rafforzato la certezza che già aveva. Comunque se fosse un preconcetto a rendere bello il “ricordo” o l’attraversamento della “soglia” che separa la vita e la morte, qualsiasi cosa ci fosse o non ci fosse dietro, vorrebbe dire che la creazione di un preconcetto in noi è positivo e di aiuto soprattutto per chi soffre la vicinanza della morte. E tendenzialmente la soffriamo tutti. Per questo un preconcetto o un qualcos’altro che ci aiuti a vivere “positivamente” l’avvicinarsi di quella “soglia” sarebbe augurabile. D’altronde i preconcetti non hanno sempre un valore negativo. A noi i preconcetti servono, servono tantissimo, per questo ne facciamo ampio uso. Il nostro cervello li usa per migliorarci/agevolarci la vita quotidiana. Senza di loro dovremmo sempre riniziare daccapo ogni qualvolta ci trovassimo in una situazione (a prescindere che sia nuova o che sia già stata più volte “sperimentata”). A partire da situazioni estremamente “banali” come quella dell’uscire da una stanza aprendo la porta che ci separa dall’ambiente successivo. Il problema dei preconcetti nella vita quotidiana è quando noi li utilizziamo senza sapere che sono dei preconcetti.

Ciò detto, e prima di inoltrarmi nel nostro discorso, un’altra piccola considerazione: se è pur vero che un determinato preconcetto sulla morte potrebbe risultare utile a noi esseri umani, può anche darsi che in funzione della materia, forse invece sarebbe augurabile – per la materia stessa nel caso ci sia davvero una differenza tra “materiale” e “immateriale” (spirito, anima , coscienza o altro che dir si voglia)- avere e conservare la paura di morire perché è proprio questa paura che ci tiene “qua” nella materia. È proprio questa paura di morire che ci tiene e ci conserva come creatori di altra materia o come “animatori” di materia che vuole “essere viva”. O per lo meno come render viva la materia che è il suo obiettivo. Forse. Quindi forse la paura della morte, il terrore della morte, è di aiuto al mondo materiale. Se si volesse procedere nel separare l’anima (o la coscienza che dir si voglia) dal corpo (dalla materia) questa potrebbe esserne una spiegazione speculativa su cui basare future dimostrazioni (è uno dei possibili approdi finali a cui porta indirettamente il romanzo-mitologico Loki e la solitudine di Ymir).

Di sicuro una qualche spiegazione queste esperienze di premorte la richiedono, almeno stando al nostro essere ciò che siamo. Richiesta che proviene da più parti: sia da coloro credono in una determinata religione, sia da coloro che sono atei. Sia da coloro credono in una divisione tra ambito “spirituale” e ambito “materiale”, sia da coloro che non credono in una divisione netta tra mondo materiale e “spirituale”. Concordo nel considerare la parola “spirituale” come un termine “démodé”, ma al netto di termini più “aggiornati” stiamo parlando grosso modo dello stesso referente. D’altronde le spiegazioni non sono un cruccio moderno. Platone fornisce delle spiegazioni, come tanti altri. Ma tanti altri ancora rilevano il problema. Personalmente non credo che qualche pensatore (e lo siamo tutti) abbia mai avuto una soluzione di cui in solitudine potesse esserne stato del tutto certo. Non ultimo lo psichiatra Jung che dopo aver sperimentato egli stesso un’esperienza di premorte, domandandosi sul perché ciò avvenisse, si rassegnò ad un generico rimando a “misteriosi motivi” (vedere la relativa testimonianza).

In questi ambiti si cita sempre il mito di Er così come lo riporta Platone nella sua opera più nota La Repubblica. Lo si riporta spesso proprio per rilevare la profondità diacronica di questa umana (?) problematica che si pone innanzi ad una esperienza di premorte. Nell’opera La Repubblica, il mito di Er compare a conclusione dell’ultimo libro. Una posizione che lo pone ancor più al centro dell’escatologia platonica. Nell’ambito della cultura greca non è un mito a sé stante. Così come d’altronde Platone non è un elemento totalmente avulso o totalmente in contrasto con la cultura in cui nasce e sboccia. Il suo contenuto si riallaccia in maniera rilevante alla “mitologia” orfica e pitagorica della metempsicosi e a quei relativi mondi esoterici a essi connessi. Allo stesso tempo però “contiene anche l’affermazione di una nuova responsabilità morale nei confronti del proprio destino dopo la morte, concetto questo in parte estraneo alla concezione tradizionale greca della vita e della morte.” ( https://it.wikipedia.org/wiki/Mito_di_Er ) Questo mito potrebbe anche essere considerato come la prima vera esperienza di premorte storicamente attestata. È infatti il resoconto di un soldato, Er per l’appunto, creduto morto e che si risveglia sulla pira funebre proprio poco prima che viene data alle fiamme. Ridestato racconta ciò che ha visto. Il racconto è ovviamente un monito per i vivi. Certo, il mito in Platone ha tutt’altra funzione da quella del presentare-esporre in maniera “scientifica” questa particolare esperienza. Si tratta di un “racconto” rivolto agli uomini e per gli uomini. Un racconto che gli uomini debbano decifrare. Allo stesso tempo dà delle indicazione ai “vivi”. Motivo per cui non può essere ovviamente l’esatto racconto riportato da un individuo che abbia sperimentato un’esperienza di premorte. Troppo analitico per esserlo. Ma la base di tale mito potrebbe essere stata davvero un racconto di premorte. Ciò è assai verosimile.

Il mito di Er è assai affascinante per l’intreccio che presenta tra libertà e necessità; tra cultura greca e futura cultura cristiana che proprio sul platonismo tanto si appoggia. Per il racconto vero e proprio vi rimando alla relativa voce di wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Mito_di_Er

Autore: John Melhuish Strudwick; opera: A Golden Thread, 1885 (oil on canvas); fonte: https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=15350363

Comunque ritornando alle interviste del documentario devo dire che al netto di tutte le considerazioni che potrebbero sorgere, queste testimonianze restano estremamente interessanti. A prescindere da tutto sono sicuramente testimonianze vere (in un modo o in un altro). Sembrano tutte persone molto religiose (non solo cattoliche ovviamente) e questa sensazione che si ha nell’ascoltarle e nel vederle viene poi confermata nell’ultima parte del documentario.

Devo rilevare che in altri ambiti non è che si riscontri sempre questa costante sensazione di “dispiacere per essere tornati in vita” che viene riportata in quasi tutte quelle interviste. Tutt’altro. Difficilmente ho sentito dire da qualcuno che è stato in coma o che ha rischiato la morte: “che sfiga mi hanno salvato la vita”. Lo dico senza ironia. Al contrario c’è molto spesso un profondo senso di gratitudine verso chi ti salva; unito ad una forte volontà di godersi la vita. Forse questa discrepanza è dovuta anche all’indole personale. Quello che voglio dire è che da quel documentario, da quelle testimonianze, traspare una certa omogeneità sia riguardo l’esperienza “riportata”, sia riguardo alla maniera in cui essa viene “metabolizzata”. Può darsi che questa omogeneità sia dovuta ad una “omogeneità” di fondo di quelle persone. Potrebbe avere una qualche connessione con il loro “essere religiosi” (con tutte le relative sfaccettature). Oppure potrebbe esser dovuta ad una loro omogeneità su come “essere” persone, nel modo di affrontare la vita. Oppure, ancora, ad una loro similitudine riguardo alla loro personali sensibilità. Ovviamente sono tutte forme di “omogeneità” connesse tra loro. Tutte spiegazioni sentite “a pelle” e che non hanno nessun fondamento scientifico. Ma plausibili.

Contro una tale lettura però si rileva che anche alcune persone atee passate attraverso un’esperienza di premorte hanno poi riportato “ricordi” e sensazioni simili a quelle del documentario sopra proposto. Non che un ateo non possa condurre una vita simile o non possa avere molti punti di contatto (nella personalità) con una persona “religiosa”; d’altronde quello che conta è il “brodo primordiale” o “il brodo sociale” in cui si è immersi e immessi. Di certo però la prospettiva futura che questi due individui hanno innanzi (un ateo e una persona profondamente religiosa) è estremamente differente, da ciò ci aspetteremmo reazioni differenti di fronte a contesti-situazioni come per l’appunto le esperienze di premorte. Invece sebbene in questi casi le persone non credenti in specifiche religioni non riportino la stessa forte omogeneità nel ricordare le medesime sensazioni avute durante “quella esperienza”, né tanto meno riportino dettagli così omogenei come avviene per le persone credenti in Dio, rimane pur sempre un dato di fatto che alcune di loro riportino esperienze assai simili a quelle riportate da persone spiccatamente religiose. Ciò è un fatto notevole. Un fatto che potrebbe essere spiegato in molte maniere anche senza per forza dare per vero quei “ricordi” (cosa che non vuol dire che non lo siano). A riguardo vengono in mente una cascata di possibili spiegazioni, tra le più probabili le connessioni e l’influenza con il mondo sociale in cui siamo immersi (come dicevo conta il “brodo primordiale”, o in questo caso il “brodo sociale” in cui gli individui sono immersi). Ciononostante siamo sempre di fronte ad un “dato di fatto” che richiede una spiegazione quanto più onnicomprensiva ed esplicativa possibile. Va tenuto però a mente sempre una questione fondamentale: il fatto che noi chiediamo (ci domandiamo su) una tale onnicomprensiva spiegazione, non vuol dire che questa “spiegazione” sia allo stato attuale a portata di mano, né tanto meno che essa “debba” esistere.

Alla fine del documentario i vari testimoni dicono che dopo quel “fatto”, dopo quella esperienza, hanno meno paura della morte. Non che la cerchino, ma allo stesso tempo la vedono sotto una prospettiva diversa. Sicuramente meno terrificante. La quasi-totalità di loro da come ne parla si inserisce in una prospettiva cristiana, ma anche coloro che non sembrano appartenere a quella prospettiva, in certo qual modo, sembrano però muoversi dentro lo stesso ambito. Per esempio, l’uomo che sembra avere una predisposizione verso l’ambito orientale-buddista (lo dico solo per le figure retoriche che emana mentre parla, per l’abbigliamento ecc. ma potrei sbagliarmi) afferma che bisogna prendersi cura del corpo perché proprio attraverso esso la luce che noi siamo può agire nel mondo. Anche questa prospettiva, forse differente per alcuni aspetti da quella propriamente cristiana, potrebbe essere interpretata alla stessa maniera di quelle delle altre testimonianze. Queste loro (simili) prospettive potrebbero essere spiegate nella medesima maniera (che ovviamente potrebbe valere anche per altri contesti). Ovvero potrei pensare che questo modo di vedere le cose potrebbe essere frutto di una qualche autodifesa del nostro io. Potrebbe trattarsi di una strategia, un ricordo-strategia della mente per eludere il timore della morte. Una strategia della mente che potrebbe sorgere in maniera siffatta in persone che hanno una affine sensibilità “religiosa”. Seppur ognuno l’ha a modo suo. In persone predisposte a vedere un collegamento al di là di questa “vita terrena” con un mondo “iperuranio” -l’accenno precedente a Platone è sempre d’obbligo in ambito cristiano – o comunque che si riallacci a Dio. Dio è etimologicamente collegato alla luce. Può essere che ci sia davvero un’equipollenza tra dio e luce; o può darsi che dalla notte dei tempi l’uomo abbia connesso la luce alla concezione di un dio/ordine delle cose che risponda alla propria necessità di intravedere un ordine nel mondo (e “del” mondo) tramite cui non sentirsi perso. Dio, in latino deus, è etimologicamente connesso a dies, latino per “giorno”, che infatti richiama la luce. Così come è per il nome proprio del dio principale del pantheon greco, Zeus, che è etimologicamente riconducibile al latino deus, e che anch’esso richiama la luce. Il collegamento dio-luce è insito all’interno della stessa concezione umana di dio-ordine delle cose che l’uomo va cercando. Forse connesso al nostro mondo dove l’alternarsi di luce e oscurità nelle ore del giorno e della notte, abbia portato il genere umano a vedere la luce (che pervade le ore del “giorno”) come la verità, come ciò che ci guida nel vero mondo che l’oscurità ci impedisce di vedere. Da qui (forse) l’associazione di dio e luce. Oppure semplicemente è che dio è realmente luce e l’associazione ci è indotta dalla “realtà” esistente, da ciò che è. Dall’esistente che ci è svelato da un dio-ordine delle cose che sia per amore nei nostri confronti sia per il suo “essere giusto” non ci illude e ci fa vedere ciò che è. Una ipotesi alla Cartesio per intenderci. Entrambe le spiegazioni sono logiche, prospettive di una stessa via viste una da un verso e una dal verso opposto. Ma entrambe potrebbero essere anche sbagliate.

Da tutto ciò, di conseguenza, potremmo pensare che durante le NDE la visione della luce nel buio si potrebbe riallacciare alla concezione umana di un dio o di un principio “ordinante” della “realtà”. Ciò spiegherebbe come mai molte persone (ed in percentuale maggiore soprattutto tra i credenti in una qualche religione) nelle loro esperienze di premorte vedono una “bellissima” luce intensa nel mezzo del buio. Tutto quello detto precedentemente ci potrebbe quindi portare a interpretare tale “visione” come una difesa naturale che la nostra mente mette in atto alle soglie del suo spegnimento e quindi alle soglie dell’imminente sua paura più grande: quella della morte, del “buio” eterno. Dell’oblio.

Foto diJesper Kolbe tratta da: https://www.pexels.com/de-de/foto/bonfires-brande-feuer-flamme-423538/

A sostegno di ciò vi è proprio il fatto che in fin dei conti si tratta di racconti edificanti, racconti che accompagnano nella maniera più serena possibile colui che deve morire. A mio parere, in queste testimonianze c’è sicuramente un valore terapeutico. Potrebbero essere “terapie” autoindotte. Auto-terapie. Potrebbe essere la mente che metabolizza/rilegge quei momenti “limiti” in funzione di un’autodifesa atta al non perdersi di fronte all’ “abisso”, di fronte all’incognita più grande che si pone innanzi ad una vita che si appresta alla “fine”. Che si appresta al salto più “buio”. D’altronde il rapporto con la morte è il terreno su cui sorge ogni religione (in un modo più o meno diretto).

Autore: Matisse, opera: La gioia di vivere; pubblicato da: Anam il Senzanome

Ma questa spiegazione spesso non ci soddisfa. Forse perché non ci piace. O forse non ci soddisfa perché vorremmo altro che abbia la capacità di toccarci più in profondità. A me non soddisfa. Ma non posso non considerare il fatto che questa mia sensazione ( o convinzione) possa provenire dalla paura di perdermi nell’oblio eterno. Per questo accennavo anche a miei pareri personali ad inizio di questo (lungo) articolo-pagina web. Ma qua io avevo detto che non avrei parlato di quel che penso io, ma semplicemente mostrato alcune tra le spiegazioni attualmente più in voga e più ampiamente accettate in campo scientifico. La scienza, la religione del nuovo mondo. Lo dico senza alcun intento denigratorio o polemico. Tutt’altro.

In funzione di ciò ritorniamo alle esperienze di premorte. Devo dire che tra le tante che ho letto quella che più interpreta a mio parere le paure profonde che ci pervadono pensando alla morte, le paure più radicate nel nostro io, è testimoniata (riportata) da un ragazzo “morto annegato”. Detto così suona da titolo sensazionalistico. Ma così è. E il fatto è stato ben documentato. Si tratta dell’esperienza riportata da un ragazzo di 18 anni (all’epoca dei fatti ne aveva 14) che è rimasto 43 minuti “annegato”. È forse l’esperienza che si avvicina alle paure più grandi che mi vengono “a galla”. Il ragazzo si chiama Michael Mandolfo e nella primavera del 2015, alle ore 17 del 24 Aprile assieme ad un gruppo di compagni di scuola fa un tuffo nel Naviglio Grande (siamo a Milano). Da quel tuffo non riemerge, un mulinello l’aveva trascinato sul fondo. Passarono ben 43 minuti prima che i vigili del fuoco riuscirono a disincastrarlo e riportarlo a galla.

I fotogrammi di quell’incidente avvenuto pochi minuti prima delle 17 del 24 aprile scorso li ricordano tutti: la bella giornata di sole, il caldo afoso e i cinque amici che si tuffano tutti insieme, da un ponticello, nell’acqua torbida e fredda (15 gradi). Riemergono tutti tranne uno, Michi, che rimane incastrato con un piede all’attaccatura di uno dei lunghi pali sistemati da tempo immemorabile lungo il canale per fare da sponda ai barconi. È il panico. Per 43 interminabili minuti tutti cercano di tirare fuori il ragazzo dall’acqua. Alla fine il nucleo sommozzatori dei vigili del fuoco di Milano riesce, attraverso una catena umana, a portare il ragazzo sulla sponda. La sua temperatura è 29 gradi, il cuore è fermo, ma le manovre di rianimazione hanno successo, perché dopo qualche minuto si sente un flebile battito. Arriva l’elisoccorso e Michi, in condizioni disperate e a tratti «refrattario alle terapie di rianimazione» viene trasportato al San Raffaele.

https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/15_maggio_26/tragico-tuffo-naviglio-salvo-14enne-un-caso-un-milione-09e33f8a-03aa-11e5-8669-0b66ef644b3b.shtml

Quando i sommozzatori lo riportarono a galla il medico rianimatore del 118 si trovò di fronte (almeno stando alla sua descrizione) un ragazzo cianotico senza alcun segno vitale. Fu poi portato con un volo disperato all’ospedale San Raffaele. Morto. “Clinicamente morto”. “Arresto cardiaco refrattario ad ogni manovra di rianimazione”. Ma diversamente dalle previsioni al San Raffaele di Milano resterà per 37 giorni senza passare per l’obitorio. Una vera e propria resurrezione. D’altronde i 43 minuti che il ragazzo passò sott’acqua costituiscono “l’annegamento per il periodo di tempo più lungo riportato nella letteratura scientifica”. Il medico rianimatore che come si diceva si trovò davanti un ragazzo cianotico senza segni vitali, a caldo raccontò che: “Chi era attorno a me mi diceva di non accanirmi su un cadavere, ma io volevo assolutamente continuare la rianimazione, la temperatura bassa mi faceva sperare.”

Quando i medici provarono a rianimarlo il tentativo era irrazionale; dall’articolo di giornale dell’epoca:

«Le condizioni limite per sperare in una ripresa sono l’immersione in acque non più calde di 5 gradi per un tempo non superiore ai 20 minuti, e in arresto cardiaco per non più di 6 minuti», spiegano i medici. Solo tenuto conto della giovane età e dell’acqua fredda del Naviglio (che ha causato un rallentamento delle funzioni vitali), Zangrillo ha deciso di tentare «un intervento a prima vista anche per noi irrazionale». Ci sono dati riportati in letteratura scientifica, «per la maggior parte relativa a casi registrati nei mari del Nord». Il successo è andato oltre le più rosee aspettative.

https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/15_maggio_26/tragico-tuffo-naviglio-salvo-14enne-un-caso-un-milione-09e33f8a-03aa-11e5-8669-0b66ef644b3b.shtml

E così il medico riuscì a recuperare “un certo ritmo cardiaco” ma con un’aritmia definita dai sanitari “refrattaria alla terapia”, insufficiente a portare ossigeno agli organi vitali. Il ragazzo viene caricato sull’elicottero dei soccorsi e da lì all’ospedale San Raffaele. Questo è quello che ha dichiarato il ragazzo al Corriere della Sera e riportato nella rivista “7” (rivista del Corriere della Sera) in data 23.08.2019:

Il vuoto, zero. Ho visto delle foto, dei video. Ma ricordi miei, originali, non ne ho.

Michael (corrieredellasera)

Di questi giorni passati in rianimazione, di quei 43 minuti passati sott’acuqa il ragazzo non ricorda assolutamente nulla. Nessuna esperienza di premorte. Nessun volo fuori dal corpo, nessuna visione “dall’esterno”. Nulla. D’altronde nello studio di Sam Parnia solo il 9% (!?!?!) riporta esperienze /ricordi di premorte, e Michael rientra nel novero della “maggior parte”. Per Michael quindi nessun ricordo di premorte, nessuna esperienza NDE. Lui che è un caso di “resurrezione” anche per la scienza, dopo 43 minuti passati sott’acqua e in coma per 37 giorni, non riporta nessun tunnel, nessuna luce. Solo il vuoto. Il nulla. La paura più grande che cerchiamo di eludere passando nel miglior modo possibile (ognuno a suo modo) i nostri giorni sotto la luce del sole o sotto i riflessi di luna. Una cosa però accomuna l’esperienza del ragazzo a quelle esperienza di premorte riportate inizialmente: la disperazione al risveglio. In questo caso però è una disperazione diversa. Il ragazzo dice che era disperato perché era stato reso cosciente del fatto che gli era stata amputata parte della gamba destra. Ad ogni modo il suo senso di dispiacere al risveglio è in linea con le sensazioni degli altri che hanno vissuto esperienze di premorte. Forse proprio perché il risveglio è “all’interno” di “un corpo” sofferente. La sensazione di ritornare a “soffrire”, ad “avere dolore”, è comune anche alle interviste del documentario iniziale e non solo.

Nessuna esperienza extracorporea, di extracorporeo Michael Mandolfo ha avuto solo (!!) l’ assistenza meccanica con circolazione extracorporea. La cosiddetta Ecmo, ovvero Extra Corporeal Membrane Oxygenation. Si tratta di una macchina “esterna” al corpo che mantiene la circolazione del paziente bypassando l’attività del cuore e dei polmoni che così rimangono a riposo. Grazie a questa divinità-macchina il ragazzo si è svegliato dopo 13 giorni neurologicamente intatto. Nell’intervista che ha concesso a 18 anni, ovvero quattro anni dopo il tragico evento, riporta questo dei suoi ricordi dell’epoca:

Quando mi sono svegliato e mi hanno detto che avevo perso la gamba, mamma ha raccontato che mi sono messo a piangere, ero disperato, volevo uccidermi. Ho avuto un periodo in cui davvero volevo morire. Ma sono cose che passano, chi non ha avuto un periodo di depressione? Io l’ho avuto per l’amputazione ed è durato molto più del ricovero e della riabilitazione messi insieme. Adesso, non si può più chiamare depressione: bene o male l’ho accettato.

Ragazzo giovane con la vita davanti, senza una gamba per correrla magari come avrebbe voluto. Ovvio che la sua fonte di tristezza sia la perdita della gamba. Magari si potrebbe pensare che ha perso una gamba però ha “riavuto” la vita. A Michael questo non basta. La gamba è il suo chiodo fisso. Forse (e dico forse, con l’ignoranza di chi scrive senza aver vissuto quel determinato dramma) questa inconsolabilità legata alla gamba può esser anche il frutto di qualcosa che gli è rimasto a livello inconscio, di un qualcosa che lui non ricorda e che potrebbe esser legato a quei momenti da “morto”. Ma questo potrebbe risultare anche un modo (ingiusto) di tirare a forza il ragazzo da una parte. Però sono estremamente interessanti le domande che il ragazzo si pone:

i medici la chiamano “effetto collaterale”, è uno scherzo dell’Ecmo. È la gamba a farmi soffrire. Esci indenne dopo un incidente così , dopo 43 minuti sott’acqua, e l’unica cosa che hai perso è una gamba: di che altro mi potrei lamentare? non riesco a non farmi un sacco di domande: perché io? perché ho perso la gamba? Perché non sono morto invece di perdere la gamba? Perché non ho perso la sinistra invece della destra?

Queste domande mi ricordano le riflessioni di Ezra Bayda sul dolore. Sinceramente seppur trovo “vere” le riflessioni di Ezra Bayda non è che gli dia quel valore che altri gli danno. E seppur riguardo alla sua opera avrei a volte (…) molto da ridire, devo ammettere che in questo contesto la sua analisi sembra adattarsi molto bene al caso di Michael Mandolfo.

Vi dicevo che questo caso è quello che mi ha incuriosito di più. L’interesse è suscitato anche da una considerazione che il ragazzo fa in risposta ad una domanda postagli dal giornalista, ovvero se l’esperienza di esser “stato morto” l’abbia reso più maturo rispetto ai suoi coetanei. Michael risponde in una maniera assai peculiare, soprattutto se considero tutte la biografie di casi simili che ho potuto leggere o visionare. Sia chiaro, in questi casi ogni risposta è originale perché ognuna è la “risposta”. Non siamo in cerca di originalità, né tanto meno “originalità” significa qualcosa in questo ambito. Ciononostante il ragazzo ha risposto in maniera “diversa”, inaspettata (almeno per me). Alla domanda se l’esperienza di esser “stato morto” l’abbia reso più maturo o gli abbia dato qualcosa in più rispetto ai suoi coetanei, Michael Mandolfo ha così risposto:

piuttosto mi ha tolto qualcosa. Maturare non è la parola esatta, non trovo un termine adatto per dire cosa è successo dopo l’annegamento e dopo che ho perso la gamba. volevo fare tante cose: il fotografo, l’architetto, lo chef. adesso non voglio più niente, vivo alla giornata. macché alla giornata: vivo al momento, un momento dopo l’altro. sono passati quattro anni ma non posso dire di aver superato l’incidente. lo supererò mai? Non lo so. Serve altro tempo? non lo so.

Michael Mandolfo

E poi arriviamo a ciò che principalmente mi interessa in relazione a questa specie di articolo che sto scrivendo, ovvero l’idea che si è fatto della morte. L’idea che si è fatto della morte un ragazzo che l’ha “vista” più da vicino di chiunque altro possiamo avere intorno. Da colui che da giovane è un caso di “resurrezione”.

Mi sono fatto una mia idea della morte: ci sono passato quindi lo so. Chi crede in dio pensa ci siano il paradiso e l’inferno. Ma nel mio caso non c’è stato nulla. Solo il nero. È come quando dormi, poi ti risvegli e non ricordi quale sogno hai fatto. della mia morte ricordo solo la noia. Da lì in poi ho capito di avere solo me stesso.

Michael Mandolfo

Il nulla elude ogni commento. Tu commenti qualcosa, il nulla non lo è. Concepire il nulla è terrificante. Chi lo fa, cerca poi solo di dimenticarlo.

autore: Edvard Munch; opera: L’Urlo (1893); http://www.ibiblio.org/wm/paint/auth/munch/

Ma ovviamente ci sono anche altre testimonianze; testimonianze che provengono da più “parti”. Altra testimonianza, seppur meno documentata, è quella riportata da un privato cittadino: http://www.triesteprima.it/social/segnalazioni/la-mia-esperienza-di-pre-morte-2176077.html . Esperienza che a detta di chi la scrive proviene da una persona da sempre scettica sui racconti di esperienze extra corporee ed in particolar modo di premorte ma che a seguito di un’embolia polmonare sperimentò in prima persona un “lucido e incredibile viaggio “. In questo viaggio sono presenti molti degli elementi “standard” di queste esperienze: un tunnel buio alla cui estremità trovò “un mondo di luce accecante, una lieve musica che emanava una dolcissima melodia, uno sterminato giardino con tanti fiori e stormi di esseri luminosi che lasciavano dietro di sé una scia altrettanto di luce(…)“. Ed anche la successiva affermazione di questo narratore sono in linea con quanto già visto nelle interviste iniziali:


Nella memoria rimasta di quel periodo ho incontrato ma ancor di più sentito una vocina soave che esprimendo amore assoluto, ben al di sopra di quello sperimentabile nella vita reale, e parlava con me con messaggi sublimi come il soffio di un alito caldo alla fine dicendomi che no ,no , non era ancora arrivata la mia ora per restare lì e invitandomi a tornare indietro . Cosa che ho fatto ricordo molto , molto dispiaciuto a dover abbandonare quel luogo fatto di infinita estasi , una sensazione mai provata prima

Claudio, da: http://www.triesteprima.it/social/segnalazioni/la-mia-esperienza-di-pre-morte-2176077.html

Essendo esperienza poco documentata, tenderei a dargli meno valore rispetto alle altre proposte inizialmente. Ciononostante siccome riecheggia le succitate altre interviste l’ho riproposta in sintesi. Potrebbe interessare a riguardo anche le considerazioni di colui che era (?) ritenuto il paziente n.1 di covid19, “Mattia”: https://rep.repubblica.it/pwa/intervista/2020/04/20/news/coronavirus_mattia_ho_visto_la_morte_sono_risorto_per_vedere_nascere_la_mia_bambina_-254555957/?ref=RHPPTP-BH-I254568020-C12-P5-S1.8-T1

A questo link trovate la testimonianza/intervista (e gli studi) di un neurochirurgo statunitense, Eben Alexander, che ha sperimentato in prima persona un’esperienza di premorte. La testimonianza/intervista è proposta all’interno di una “popolare” trasmissione televisiva (un anticipo di ciò che parleremo fra poco, per questo non mi ci soffermo ora): https://www.youtube.com/watch?v=P1RWOKdC8zw ). Questa testimonianza (indipendentemente ovviamente dalla trasmissione specifica che la propone …) ha attirato l’attenzione di più parti. Non per nulla una intervista di Alexander viene anche proposta (tradotta) in una pagina Facebook di una persona di fede islamica (Islam e Cristianesimo non sono poi così diverse nelle radici e nella concezione di dio anche post-mortem umana): https://www.facebook.com/ISLAMINITALY/posts/salam-alaykom-ieri-ho-ascoltato-in-tv-questa-intervista-la-riposto-scritta-e-las/447602675311085/

Ci sono poi molte esperienze di NDE anche tra personaggi noti. Sinceramente non gli darei un peso maggiore rispetto a quelle avute da gente meno nota. Tutt’altro. Non per senso etico, ma per il fatto che le esperienze riportate da un personaggio noto, sebbene abbiano tutte indistintamente un grande valore, potrebbero avere ancor più ragioni “pratiche” d’esistere rispetto a personaggi meno famosi. In verità mi suscitano molti dubbi. Il punto è che non saprei come ponderarle. Nel senso che a volte onestamente non saprei (ed effettivamente non lo si sa mai) quanto queste esperienze siano davvero “sentite” oppure quanto siano regalate “al pubblico” per amor della ribalta o del “palcoscenico”. Mi rendo conto che questa sia affermazione gratuita e forse addirittura ingiusta, però non posso che non tenerla in considerazione. Molte di tali esperienze NDE, nell’ambito di personaggi noti, provengono da attori e “star” della televisione. E qua ancora: non che un attore sia meno “vero” di un “elettricista”, semplicemente l’amor della ribalta, insito (e meno male) in quella professione mi fa essere più scettico a riguardo. Molto probabilmente sbagliando. I casi in questione sono numerosi, vanno dall’attrice S. Stone a R. Reagan (attore e poi politico fino a diventare Presidente degli USA). Per esempio, proprio quest’ultimo (Ronald Reagan) nella sua esperienza NDE afferma espressamente di essere stato “soccorso due volte dagli angeli”. In America la religione fa parte espressamente della politica più di quanto si ammetta. Mi dispiace parlarne così, e non mi piace che lo faccia. Ciò detto mi viene naturale. Ci sono però due esperienze NDE di personaggi assai noti che almeno per me hanno un grande valore seppur per motivi assai differenti.

La prima esperienza è quella riportata dallo scrittore statunitense Ernest Hemingway. Durante la prima guerra mondiale fu ferito sulle rive del Piave, in Italia, e trasportato a Milano per la convalescenza. Da là scrisse delle lettere ai suoi familiari in cui descrisse quell’esperienza:

Ernest Hemingway, 1918, “American Red Cross volunteer. Portrait by Ermeni Studios, Milan, Italy”. Fonte: “Ernest Hemingway Photograph Collection, John F. Kennedy Presidential Library and Museum, Boston – EH 2723P, Milan, 1918”.

Quella notte esplose vicino a me una bomba di mortaio austriaca. Io rimasi come morto. Sentii la mia anima o qualcosa di simile uscire dal mio corpo, come se avessi tirato fuori da una tasca un fazzoletto di seta. Volò in giro, poi tornò indietro e io non ero più morto.

Ernest Hemingway
Ernest Hemingway, 1917 circa.
Fonte: Photograph in the Ernest Hemingway Photograph Collection, John F. Kennedy Presidential Library and Museum, Boston.

La vita successiva a quell’evento fu per lui coronata da grande notorietà, ma al tempo stesso lo portò ad un triste epilogo. Hemingway morì suicida nel 1961, a 62 anni. Quel fatto/gesto provoca (almeno in me) sempre una sterminata pietà. Ciò forse mi fa vedere a posteriori quell’esperienza dello scrittore statunitense come ancor più significativa.

Un altro personaggio noto di cui merita conto riportare l’esperienza NDE (come per gli altri ma ancor più degli altri) è lo psichiatra Carl Gustav Jung. Quando era già ormai ultra sessantenne Jung ebbe un infarto, era il 1944, e descrisse il ricordo di tale “esperienza” nel suo libro Ricordi, sogni, riflessioni. Jung scrisse che durante la sua esperienza di premorte, prima che il dottore riuscisse a richiamarlo alla “vita terrena”, egli aveva sperimentato di essere sospeso nello spazio. Disse di essersi ritrovato a fluttuare nello spazio da un’altezza da cui poteva vedere distintamente sotto di lui il globo terrestre. Descrisse la terra, che poteva vedere chiaramente nella sua forma sferica, come avvolta da una bellissima luce azzurrina che risplendeva di un bagliore argenteo.

C.G. Jung, foto di sconosciuto caricata da Adrian Michael – Ortsmuseum Zollikon, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=35027304

Più tardi mi informai dell’altezza alla quale si dovrebbe stare nello spazio per avere una vista così ampia: circa 1500km. La vista della Terra da tale altezza è la cosa più meravigliosa che avessi mai sperimentato.

C.G. Jung

Da quell’esperienza Jung trasse la convinzione che la permanenza nel corpo fosse/sia solo un “frammento di esistenza” e che la realtà in cui viviamo è una prigione fatta per scopi misteriosi. Se così fosse, se fosse come lui dice, potremmo anche pensare (per lo meno io sarei portato a farlo) che se in questa “realtà” noi desideriamo uno scioglierci nel tutto da cui proveniamo ciò vuol dire che il “tutto” medesimo ha la necessità di una individuale essenza. La sogna, la brama. Ha la necessità di più individuali essenze. Loki ne esprime una necessità.

STUDI A RIGUARDO In ambito “occidentale” e in un contesto geografico culturalmente “cristiano” è da rilevare che uno dei primissimi studi scientifici su queste esperienze NDE è stato prodotto da uno psicologo statunitense, R. Moody il quale lo condensò in un libro pubblicato nel 1975, La vita oltre la vita. Anche in questo libro le esperienze riportate riecheggiano in maniera quasi equipollente quelle che avete visto nel precedente documentario italiano. Moody riportò oltre un centinaio di casi in cui persone “rianimate” (questa espressione mi piace ma esprime già un parere e una prospettiva di analisi … ) riferivano esperienze NDE caratterizzate da una sensazione di profondo benessere e da visioni “ricorrenti”: la visione di una luce chiarissima in fondo ad un tunnel, l’abbandono del proprio corpo che appare come visto dall’alto, l’incontro con persone defunte e a cui i pazienti erano molto legate (i cosiddetti “propri cari defunti”) ed anche la riluttanza a tornare in vita.

Va detto che anche allargando lo spettro di indagine, i racconti attinenti a queste esperienze (rintracciabili in rete e in bibliografia) riportano pur sempre alcuni elementi ricorrenti a prescindere dall’ambito geografico e culturale. Ci sono degli elementi che potremmo definire quasi standard. La luce, il senso di pace, la riluttanza a tornare nel mondo “corporeo”; tutti elementi quasi standard di queste esperienze che quasi mi rimandano in prima istanza alla filosofia scolastica medievale. In seconda istanza mi rimandano a tante altre cose, però questa prima connessione con la filosofia scolastica medievale è sorprendente. Forse perché “radicata nell’animo umano”. E in fondo la si riscontra in tantissime altre popolazioni culturalmente indipendenti (per quanto possibile …) da influssi europei. Non che anche il suo legame successivo con l’idealismo tedesco e le sue diffusioni sia secondario. Però tutto ciò che viene dopo, per quanto bene possa essere conosciuto, diventa quasi “secondario”, come è naturale che sia nel ricercare un legame (religo …) tra gli uomini di epoche passate. Ma non voglio parlare di questo. Non voglio fare disquisizioni o dispute filosofiche dove tanto ognuno può concludere con la ben nota frase “ma tu non hai ben capito quel che dico io …”. Se non altro sebbene la scienza non è e non può essere – per sua stessa definizione- l’indiscutibile oggettività, né tanto meno può essere lo specchio su cui la verità è riflessa in qualche modo, allo stesso tempo la scienza (se non altro) ci offre un campo di incontro dove le prove sperimentali – per quanto non completamente oggettive – ci offrono un terreno quanto più possibile oggettivo. Almeno per ora. Un “terreno” su cui scendere ad un incontro e sviluppare il nostro sapere.

Ribadiamo quel che si constatava, ovvero che queste esperienze di premorte si hanno anche in altri ambiti che a prescindere da contesti geografici, culturali, religiosi o dal livello di istruzione dei singoli individui che le hanno sperimentate, mantengono pur sempre dei noti elementi comuni. Siccome nello spiegarli si rimanda spesso ad una qualche forma di coscienza “esterna” e scissa dal corpo, si è spesso tentati “per tradizione” di spiegarli attraverso il concetto di anima. Il discorso sull’anima è infatti “da sempre” argomento proprio degli ambiti religiosi. Si badi bene però che “religione” è qualcosa di ben connaturato (“legato”) all’uomo, un “legame” indissolubile tra l’uomo e il mondo esterno che si “srotola” indipendentemente dalle singole “svelate” religioni. Ma per volutamente trovare un linguaggio che cerchi di “purificarsi” da possibili involontarie ricadute nell’ambito prettamente religiose, si parla spesso di “una qualche forma di coscienza” che trascende (o che può anche trascendere) i composti organici su cui “soggiorna”. L’uso del termine coscienza anziché di anima è funzionale ad affrontare la questione in termini più propri della scienza e della filosofia piuttosto che rimandare ad un ambito prettamente religioso. Una coscienza scissa (o che può anche essere scissa) dal corpo. Indipendentemente però dal vocabolo utilizzato, seppur esso richiama differenti sfaccettature, possiamo dire che il discorso è in fin dei conti ben più che parallelo. Il discorso della scienza ed il discorso della religione. Ma in virtù della premessa poco prima fatta, cercheremo qua di dare uno sguardo alla visione della scienza. Non è ovviamente solo una questione terminologica, ci si riferisce anche ad un modo di vedere e procedere. Ribadisco però che i due discorsi (quello “scientifico” e quello “religioso”) sono molto meno differenti di quanto comunemente si è portati a credere. E lo dico da non credente in nessuna religione specifica.

A riguardo il medico americano S. Hameroff e il matematico e fisico britannico R. Penrose sostengono di aver sviluppato una teoria fondata sulla meccanica quantistica che spiegherebbe l’esistenza di una coscienza (o “anima”) che darebbe una spiegazione sia della morte sia dei fenomeni di premorte (vedere questo articolo scientifico da loro pubblicato: https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S1571064513001188 ). Secondo loro ciò avviene sulla base del comportamento dei componenti più minuscoli della materia. Secondo i due scienziati, l’anima esiste e sarebbe contenuta come informazione quantistica in microtubuli presenti all’interno di neuroni. Al momento della morte essa fuggirebbe dal sistema nervoso per tornare all’universo. Si ricongiungerebbe però al corpo se riportato in vita in tempo. La loro teoria è conosciuta come Orch-Or. Per averne una visione più dettagliata ma allo stesso tempo comprensibile anche a non specialisti della fisica, guardate la relativa voce di wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Orch-Or

Questa teoria/spiegazione seppur ha fatto e continua a far clamore, in verità non è che sia “scientificamente” così solida (vedere: https://www.wired.it/attualita/media/2017/11/21/teoria-quantistica-coscienza-anima/ ). In realtà siamo ben lontani da una visione condivisa all’interno dell’attuale paradigma scientifico. Ovviamente ciò non vuol dire che il riconoscimento da parte dell’attuale paradigma scientifico presupporrebbe il fatto che le cose stiano effettivamente in quel modo. Né tanto meno che dovremmo considerarle in quella maniera “per sempre”. Ad ogni modo la comunità scientifica è per la maggior parte poco propensa ad appoggiare questa tesi. Anche perché andrebbe in contraddizione con altri dati sperimentali. Alcuni fisici per esempio hanno mosso fondate obiezioni evidenziando un problema di “desincronizzazione delle funzioni d’onda quantistiche” che dovrebbe far perdere la presunta informazione quantistica dei microtubuli circa 10 miliardi di volte più in fretta di quanto stimato da Penrose.

Le teorie in verità sono numerose. Molte di esse capovolgono i termini della questione. Per esempio quelle del cosmologo Max Tegmark del Mit di Boston. Egli propone una visione che a grandi linee si riallaccia alla teoria precedentemente formulata da Hugh Everett III e che presupporrebbe un multiverso. Credo di poter dire che sia stato il primo scienziato a formulare la teoria del multiverso almeno in termini così espliciti. Vedere biografia di riferimento: P. Byrne 2012, The Many Worlds of Hugh Everett III, Oxford University Press.

Ma ritornando alla critica della teoria di Hameroff-Penrose vi riporto questo estratto di un giornalista scientifico:

Dal punto di vista sperimentale, poi, l’unico risultato rilevante è l’osservazione di proprietà quantistiche vibrazionali nei microtubuli, ma da qui all’idea di una coscienza universale, o a maggior ragione dell’esistenza di un anima, il passo è enorme e per nulla giustificato. Anche il collegamento tra queste vibrazioni quantistiche e alcuni tipi di onde cerebrali non ancora spiegate dalla scienza medica resta tutto da stabilire. In sostanza a partire da qualche vago e preliminare risultato scientifico, sicuramente degno di approfondimenti, siti e blog (pseudo)divulgativi hanno tratto conclusioni del tutto arbitrarie, che più che alla scienza afferiscono alla religione e alla spiritualità. Un aspetto curioso è che Penrose è ateo, dunque non ha mai parlato né di anima né di aldilà o di un essere superiore, ma solo della sopravvivenza di una non-meglio-precisata informazione quantistica all’esterno del nostro corpo. Dal punto di vista scientifico sono ancora molti gli aspetti sconosciuti riguardo al funzionamento della nostra mente, così come sull’impatto degli effetti quantistici sui fenomeni macroscopici che riguardano la nostra quotidianità. Basta pensare che sono di natura quantistica il principio di funzionamento dei laser, le proprietà dei superconduttori e persino la longevità del Sole. Il metodo scientifico prevede di formulare ipotesi e di sottoporle poi al vaglio dell’analisi teorica e delle prove sperimentali, senza mai forzare le conclusioni. Non è escluso che nei prossimi anni possano arrivare risultati sorprendenti anche sulla natura della nostra coscienza (che ognuno potrà poi plasmare in base alle proprie credenze religiose), ma a oggi gridare che “l’anima esiste” e che “abbiamo le prove” è solo un’affascinante invenzione.

G. Dotti su https://www.wired.it/attualita/media/2017/11/21/teoria-quantistica-coscienza-anima/

La teoria di Penrose comunque non è stata messa in soffitta, anzi annovera molti sostenitori. A volte, mi sembra che molti di questi sostenitori vogliano fortemente esserne sostenitori. Ma d’altronde tutti vogliamo sostenere le nostre convinzioni in un modo o in un altro. Ed in fondo si tratta di una teoria gratificante per tutti, cosa che la trasforma in un affascinante polo gravitazionale per la nostra attenzione. Inoltre si inserisce perfettamente non solo in una più ampia intelaiatura speculativa umana, ma rientra perfettamente anche in una intelaiatura specultiva/teologica del mondo di matrice specificatamente cristiano-occidentale. Indubbiamente se il cristianesimo ha pervaso la società contemporanea e la avvolge da circa due millenni lo si deve anche ai suoi indissolubili legami con il platonismo. Platone sosteneva fortemente l’esistenza dell’anima già 2400 anni fa. Oltretutto sia Hameroff che Penrose sono due scienziati di fama mondiale nei loro rispettivi campi. Se è pur vero che la comunità scientifica non è e non deve essere un organo democratico con votazione finale, al netto che anche ovviamente in questo ambito i legami e i vincoli tipicamente umani non possono essere messi del tutto in disparte, le teorie di due importanti scienziati debbano per forza di cose essere tenute in debita considerazione.

Da tutto ciò quindi si capisce come sia del tutto giustificata la gran risonanza che la loro teoria abbia riscontrato nei vari organi di informazione. Vedere per esempio: https://www.tg24-ore.com/2019/10/01/scienziati-di-fama-mondiale-lanima-esiste-ed-e-immortale-lo-dimostra-la-fisica-quantistica-video-5/ . Inoltre si consideri anche che Penrose era ateo. Quindi la sua ricerca probabilmente non fu condotta per perseguire una conferma, almeno non a livello conscio. Con l’avanzare dell’età però tutti si approda a “credenze” diverse dalla giovinezza. Fa parte del “naturale” sviluppo individuale. Ma queste considerazioni potrebbero essere solo il frutto di una mia voglia di affermare le mie credenze giovanili. Ribadisco che anche la nostra volontà di veder affermato ciò che pensiamo, o ciò che desideriamo, ha indubbiamente il suo ruolo. Ciò vale sia per un verso che per l’opposto.

L’argomento delle esperienze extracorporali in generale (OBE) e delle NDE nello specifico è anche stato di recente al centro dell’attenzione dei neurologi europei. In uno studio presentato al V Congresso dell’Accademia Europea di Neurologia, il fenomeno (a detta di questo studio) risulterebbe essere tutt’altro che raro essendo stato sperimentato infatti da circa il 10% delle persone studiate/considerate dallo studio medesimo. Si tratta di una indagine condotta da ricercatori del nord Europa: danesi, tedeschi e norvegesi. Questo studio può essere condensato e riassunto dalle parole di D. Kondziella, neurologo dell’Università di Copenhagen:

Abbiamo scoperto che l’associazione di esperienze di quasi morte è legata al sonno REM: un tipo di sonno caratterizzato da movimenti rapidi degli occhi, durante il quale il cervello è attivo come durante la veglia e i sogni sono più vividi

Daniel Kondziella, neurologo dell’Università di Copenhagen

Questa spiegazione non è la sola possibile, ma è quella generalmente ed attualmente più accreditata. Ovviamente per le esperienze NDE, o anche semplicemente per le esperienze extracorporali, ci sono tante altre spiegazioni “scientifiche “. La scienza è la forma moderna della religione, il suo degno e direi quasi naturale prolungamento, le cui teorie però si succedono come fratture con i paradigmi precedenti sebbene siano “generate” da quegli stessi paradigmi. Su questo vedere Thomas Kuhn e il suo illuminante lavoro (almeno per me): T. Kuhn, La Struttura delle Rivoluzioni Scientifiche, Einaudi 1979.

Esperienze extracorporee, come si diceva, sono state riportate da diverse persone in diversi periodi storici ed in diversi contesti geografici (anche, se non soprattutto, sciamanici). È stato quindi doveroso per “la scienza” fornire una sua spiegazione. Ma è bene sottolineare che la scienza non parla attraverso una voce, la voce è la costruzione sociale finale. La “scienza” all’opposto è una polifonia che tende ad assestarsi a mano a mano che le voci si parlano. In questo ambito alcune persone hanno sostenuto e sostengono (come abbiamo visto e vedremo) che le esperienze extracorporee (OBE) dimostrano che la mente conscia, o addirittura l’anima, possa lasciare il corpo in cui “soggiorna”. Altre (la maggior parte) si sono sentite chiamare in causa nel dare una spiegazione quanto più condivisa possibile e che non tirasse necessariamente in ballo una coscienza che si allontani dal corpo.

Ovviamente nell’ambito di questa polifonia scientifica le teorie sono molteplici. La spiegazione scientifica “canonica” per le NDE (e OBE in generale), allo stato attuale, è ben più “terrena” rispetto al “fluttuare dell’anima”. Neuroscienziati e psicologi ritengono che abbia a che fare con il malfunzionamento di alcuni processi neurali. Esse sarebbero dovute alle peculiari condizioni fisiche in cui si trova il soggetto in prossimità della morte. Secondo tale teoria infatti in coloro che si avvicinano alla morte, la mancanza di ossigeno nel cervello e il rilascio di alcune sostanze neurochimiche innescate dal trauma, sono due situazioni che interferiscono in maniera devastante/formidabile/straordinaria con le funzioni sensoriali che normalmente ci fanno sentire all’interno del corpo. Di conseguenza sono la causa primaria che ci inducono a sperimentare sensazioni così “anomale”. La reminiscenza (le immagini che emergono dalla memoria) di esperienze extracorporee che ricordiamo di aver sperimentato durante quegli estremi momenti, potrebbero essere dei falsi ricordi con cui cerchiamo di dare un senso a queste esperienze del tutto “anomale”. Ciò sarebbe anche coerente con il fatto che le esperienze OBE sono molto più comuni tra le persone con problemi vestibolari (il sistema vestibolare si trova nell’orecchio interno ed è fondamentale per il nostro senso dell’equilibrio e dell’orientamento nello spazio). Inoltre ciò sarebbe anche coerente con il fatto che alcune droghe sintetiche, in particolare quelle associate alla chetamina e alla DMT, possono scatenare esperienze OBE (i cosiddetti “trip psichedelici”). Il motivo sarebbe proprio da ricercare sulle loro conseguenze riguardanti l’elaborazione delle percezioni sensoriale da parte del cervello.

Indubbiamente queste esperienze extracorporali non avvengono casualmente, ma seguono a “stati dell’essere” particolarmente intensi: fatti particolarmente dolorosi, immersioni meditative che approdano a forme definibili di “illuminazione” (in tempi e modalità anche all’apparenza casuali ma che sono l’approdo di determinati “iter”) ecc. Magari ciò significa che ci devono essere degli “stati” particolari o per attivare qualcosa nel nostro cervello o perché realmente/effettivamente si riesca a trascendere noi stessi. Il punto è quindi sapere se tali “approdi” alle esperienze extraccorporali siano davvero una visione “del reale” o se siano “illusioni” dateci dai nostri apparati organici.

Gli scienziati del Karolinska Institutet (di gran lunga l’Università di medicina più prestigiosa della Svezia e non solo) attraverso la scansione cerebrale sembrerebbero aver svelato le illusioni a cui è soggetto il nostro cervello e che ci inducono a “sperimentare” le esperienze extracorporee: https://news.ki.se/brain-scan-reveals-out-of-body-illusion . Questi ricercatori sono riusciti ad indurre stati di sensazioni extracorporee in volontari in buona salute, semplicemente provocando confusione nei loro sistemi sensoriali (qua trovate un riassunto con relativa spiegazione “popolare”: https://www.thejournal.ie/out-of-body-experience-swedish-2085089-May2015/#:~:text=SCIENTISTS%20IN%20SWEDEN%20have%20manufactured,placed%20inside%20a%20brain%20scanner.&text=While%20most%20people%20assume%20that,that%20is%20not%20the%20case.). Per coloro che sono invece interessati all’articolo scientifico vero e proprio, il rimando è a questo link: https://www.cell.com/current-biology/fulltext/S0960-9822(15)00412-1

Un altro modo per indurre esperienze extracorporali, e che quindi proverebbe che queste non sono “vere” esperienze ma “solo” frutto di un inganno del cervello, si basa sui battiti cardiaci. Questa esperienza sarebbe stata riprodotta in un laboratorio in Svizzera; esperimento condotto da Jane Aspell, Lukas Heydrich e Olaf Blanke presso il Politecnico Federale di Losanna ( https://www.focus.it/comportamento/psicologia/vedere-il-proprio-battito-cardiaco-da-l-illusione-di-uscire-dal-corpo ):

Così Jane Aspell ha spiegato questo esperimento che ha coinvolto 17 volontari:

I ricercatori hanno chiesto a 17 persone di stare in piedi indossando un visore che mostrava un video del loro corpo visto di spalle, proiettandolo a 2 metri di fronte a ciascuno. Intorno al corpo virtuale è stata generata una luce – una sorta di alone – che pulsava allo stesso ritmo del battito cardiaco di ogni soggetto. Questa situazione avrebbe, secondo gli esperti, l’effetto di proiettare un segnale interocettivo (quello del proprio battito) all’esterno dei corpi reali dei volontari.

Dopo 6 minuti i soggetti sono stati condotti indietro di un metro e mezzo, ad occhi chiusi. Quindi, a ognuno è stato chiesto di risistemarsi dov’era prima: la tendenza generale è stata quella di avvicinarsi di più all’avatar, segno che l’esperimento avrebbe effettivamente alterato la loro percezione di sé nello spazio.

https://www.focus.it/comportamento/psicologia/vedere-il-proprio-battito-cardiaco-da-l-illusione-di-uscire-dal-corpo

«L’esperienza extracorporea è la “rottura” della coscienza di sé nello spazio il soggetto è sveglio ma si sente come se stesse fluttuando sopra al proprio corpo. Queste esperienze, al di fuori del laboratorio, sono associate ad alcune condizioni mediche come epilessia, emicrania, danni cerebrali, ma possono avvenire anche in concomitanza a deprivazione sensoriale, traumi fisici, anestesia generale e abuso di droghe».

«In futuro alcuni aspetti di questa illusione potrebbero essere utilizzati come punto di partenza nelle terapie con pazienti che accusano disordini nella percezione del sé e si sentono disconnessi dal fisico, come avviene in chi soffre di anoressia nervosa o depersonalizzazione ma occorreranno ulteriori ricerche per sviluppare simili strumenti»

Jane Aspell

Questi fin qua presentati non sono gli unici esperimenti che ci porterebbero a considerare le esperienze OBE (extracorporali), così connesse con le NDE, come inganni del nostro cervello. Per darvi un altro esempio di “spiegazione” con criteri “scientifici” di queste esperienze OBE, vi propongo anche questo studio-esperimento, con le relative deduzioni, pubblicato sulla rivista Science da Bigna Lenggenhager della Scuola Politecnica Federale di Losanna, e da Henrik Ehrsson dell’University Collage di Londra.

L’esperimento. I partecipanti all’esperimento hanno indossato occhiali per visioni tridimensionali attraverso i quali hanno visto, proiettata a una distanza di due metri, la propria immagine mentre era simultaneamente ripresa da una telecamera posta dietro di loro. Durante la proiezioni, la schiena dei volontari è stata più volte toccata con una bacchetta, così che essi hanno potuto vedere ciò che accadeva “in diretta” sull’immagine virtuale. Quando poi ai partecipanti è stato chiesto dove si trovassero quasi tutti hanno indicato la posizione virtuale. Gran parte dei volontari, quindi ha avvertito la dissociazione dal proprio corpo.

Le conclusioni. Secondo gli autori lo studio fornisce una spiegazione scientifica del fenomeno, alla base del quale “potrebbe esserci una disconnessione fra i circuiti del cervello che elaborano le informazioni sensoriali”. Gli esperimenti, ha commentato Peter Brugger, dell’University Hospital di Zurigo, dimostrano che la prospettiva visuale e la coordinazione fra sensi e visione sono importanti per la sensazione di trovarsi dentro il proprio corpo. Insomma, concludono i ricercatori, la percezione che una persona ha di se stessa può essere manipolata usando una serie di stimoli multisensoriali. Perchè l’unità spaziale e la coscienza del corpo dipendono dai meccanismi del cervello. Una scoperta che apre la strada a nuovi studi sulla percezione della persona. E intanto già si intravede la prima applicazione pratica della ricerca. Potrà aiutare i programmatori di realtà virtuali a disegnare ambienti che facciano davvero sentire gli utenti in un’altra dimensione.

https://www.repubblica.it/2007/08/sezioni/scienza_e_tecnologia/cervello-viaggio/cervello-viaggio/cervello-viaggio.html

Questo genere di studi vanno di pari passo con gli studi sulla manipolazione dei ricordi. D’altronde è da lungo tempo assodato che la memoria può essere fallace e che il cervello può ingannare (vedere per esempio: https://centroclinicoeden.it/le-illusioni-gli-inganni-del-cervello/ ) . Ciò può avvenire sia sotto forma di percezioni ottiche in cui il cervello ci trae in inganno, sia in alcuni processi/ragionamenti logici mistificatori ed altro ancora. La mente è il nostro più straordinario “strumento” se non l’essenza di noi stessi, ed è allo stesso tempo la nostra più inattaccabile fonte di errori. Molti esperimenti e molti studi lo provano. Errori che d’altronde sono indagabili (a quanto attualmente pare) solo attraverso essa stessa.

Prendiamo la memoria, come si diceva. La memoria, pur coinvolgendo tutto il cervello, è particolarmente legata a tre aree specifiche : i lobi frontali (collocati nella parte anteriore del cranio), l’amigdala e l’ippocampo. Senza entrare nelle “competenze” di queste tre attualmente ben riconoscibili parti del cervello, e senza entrare nel merito di come avvengano “le memorie” o di come funzioni “la memoria”, quello di cui vogliamo ora accennare è la possibilità di installare in persone “normali” dei falsi ricordi. Così come molti considerano le esperienze NDE, ovvero falsi ricordi frutto di illusioni della mente (dovuti a “malfunzionamenti” cerebrali). A riguardo la storia degli studi sugli inganni che ci inducono a “vedere” è ormai pluridecennale. Per esempio, in un celebre esperimento condotto negli anni ’70 dalla psicologa statunitense Elizabeth Loftus, si cercò di inculcare in 24 individui fra i 18 e i 53 anni un falso ricordo. Ovvero il falso ricordo di essersi persi in un centro commerciale quando avevano 5 anni. Su sette pazienti l’esperimento funzionò, quest’ultimi si erano convinti di aver realmente vissuto quel falso ricordo indotto.

Fonte: NIH Image Gallery ; Cracking the brain’s memory codes (“craccare i codici di memoria del cervello”); https://www.flickr.com/photos/nihgov/34276634144

Se quindi la memoria è suggestionabile o alterabile, o in certi casi addirittura creabile, di sicuro fenomeni come l’NDE potrebbero essere risposte del nostro cervello a situazioni “estreme”. D’altronde anche durante il sonno, momento particolare che il nostro cervello a volte richiama alla memoria, lo stesso nostro cervello assimila e rielabora gli avvenimenti della giornata appena trascorsa salvandone alcune parti e scartandone altre. A volte richiama “fatti” o “persone” non pertinenti alla giornata passata ma ben più “vecchi”. Ad ogni modo quando recuperiamo informazioni dal sonno, non recuperiamo un’informazione specifica ma operiamo un’attività di ricostruzione “attiva” del ricordo. In questo caso sembra che le sinapsi (le strutture che permettono il passaggio dell’impulso nervoso delle cellulare nervose -le connessioni funzionali tra due cellule nervose o fra una cellula nervosa e l’organo periferico di reazione ) si modificano e si riarrangiano (si risistemano) formando nuove memorie leggermente differenti dagli avvenimenti realmente vissuti. Quel che è interessante è che i sogni a volte ci sembrano davvero “vividi” e “reali”. Senza essere autoreferenziale, riporto un caso estremo, un caso clinico, che ho conosciuto personalmente e con cui ho “lavorato” per qualche mese. Si tratta di una ragazza affetta da schizzofrenia che aveva come caratteristica l’esser soggetta a grandi sbalzi di umori (posso capire l’obiezione di chi ora stia pensando che questo è un problema universale del mondo femminile e per nulla specifico di un qualsiasi individuo di sesso femminile della razza umana, ma questo è un altro e ben più grande problema ….).

Immagine che mostra le aree cerebrali più attive nei controlli rispetto ai pazienti schizofrenici durante un’attività di memoria di lavoro durante uno studio di fMRI. Sono mostrate due sezioni di cervello. Autori: Kim J, Matthews NL, Park S.; fonte:https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Schizophrenia_fMRI_working_memory.jpg .

Questa ragazza aveva la caratteristica di metabolizzare i propri sogni come fatti realmente accaduti. Quando da un giorno all’altro si dimostrava particolarmente adirata con uno specifico compagno/a di classe senza apparente motivo, lei riferiva che il ragazzo o la ragazza in questione le aveva procurato tale o tal altra situazione spiacevole. Situazioni mai avvenute. Con me simili situazioni non capitarono, o accaddero in senso opposto visto che a volte veniva a cercarmi nei corridori in attesa di un saluto che si manifestava con un semplice sorriso visto che la ragazza era tutt’altro che loquace. Ma quando invece tali manifestazioni di ira comparivano improvvise da un giorno all’altro, da varie considerazioni emergeva anche sempre il fatto che la ragazza confondeva i sogni con la realtà. Di conseguenza, almeno a volte, il sogno veniva percepito come reale. Non distingueva la “realtà” dal “sogno”. Questo era il caso di una ragazza con sindrome schizzotipico e che aveva bisogno di cure (e medicinali) e costantemente seguita da insegnanti di sostegno. Ma se vale in quel caso limite si può dire che anche un evento/esperienza limite possa sortire effetti simili in tutti noi. D’altronde il limite tra mente e cervello, se c’è, è argomento non solo fisico ma da sempre anche filosofico. Di sicuro però all’interno della nostra società alla “scienza” spetta l’ultima parola (posizione che si è meritata “sul campo”).

Il punto è che la scienza in quest’ambito (ancor più che in altri) non parla con una voce sola (come già si diceva). In questo procedere dialettico è sicuramente da citare, come fulcro di una possibile risposta alle sopracitate evidenze addotte, il pensiero del cardiologo olandese Pim van Lommel. Le sue teorie sono il frutto di oltre trent’anni di indagine sul fenomeno NDE e i suoi relativi studi sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista scientifica The Lancet (l’articolo: https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(01)07100-8/fulltext ). Nel 2007 pubblicò poi un volume dal titolo già esplicativo: Eindeloos Bewustzijn: een wetenschappelijke VISIE op de Bijna-Dood ervaring (esplicativo per un olandese …). Libro che venne pubblicato anche in lingua italiana nel 2017: Coscienza senza fine – un approccio scientifico alle esperienze di pre-morte . A mio parere è un bel libro che vale la pena leggere indipendentemente dalle nostre convinzioni.

Dal suo punto di vista le NDE non possano essere spiegate tirando in ballo la mancanza di ossigeno, l’immaginazione o varie forme di psicosi. Per van Lommel le NDE necessitano di ben altre spiegazioni se si vuole comprendere l’incisione che hanno nelle vite di chi le “attraversa”. Le stesse spiegazioni scientifiche incentrate sui rapporti tra cervello e coscienza attualmente sostenute dalla maggioranza di medici, filosofi e psicologi, sono ritenute dal cardiologo olandese troppo limitate per poter spiegare adeguatamente fenomeni così complessi come le NDE. Il fulcro di tutto è la sua convinzione che la coscienza non sempre si può far coincidere con le funzioni cerebrali, ma che anzi essa possa a volte essere sperimentata come separata dal corpo. C’è una frase (riferita all’ambito cardiologico) che a parere mio racchiude il suo pensiero, un pensiero d’altronde condiviso anche in tanti altri ambiti, ed è la seguente:

Ciò di cui ora abbiamo bisogno è un altro approccio scientifico, post-materialistico, per comprendere come si possa esperire una coscienza acuita mentre il cervello non funziona più, come durante un arresto cardiaco

P. van Lommel (p.37)

Le sue interpretazioni delle esperienze NDE lo hanno portano a formulare una concezione della realtà che ipotizza l’esistenza di una coscienza “onnipervadente” al di là dello spazio e del tempo. Una concezione non nuova e che proprio per il fatto di essere non nuova ha un suo punto di forza e una enorme attrattiva gravitazionale.

Se ci si basa sulle scoperte effettuate nella maggior parte degli studi neurofisiologici condotti durante un arresto cardiaco vi son o buone ragioni per ritenere che la coscienza non sempre coincida con il funzionamento del cervello e che la morte non comporti la fine della coscienza, ma solo un cambiamento del suo stato

P. van Lommel

I fenomeni di NDE potrebbero quindi essere spiegati con l’ipotesi che la coscienza esista in modo indipendente dal cervello e che continui a esistere anche dopo la morte non avendo né inizio né fine. Secondo van Lommel il cervello fungerebbe quindi solo da interfaccia, ospitando, quando siamo in stato di veglia, parti di questa coscienza potenziata e parti dei nostri ricordi. Credo, a conferma di quanto già sostenevo, che ogni teoria la si può comprendere solo all’interno del contesto sociale e tecnologico di una determinata società (d’altronde “ogni mezzo tecnico è sempre un mezzo sociale”). Parlare di “interfaccia”in una società precedente alla nostra sarebbe stato concetto assai difficile da spiegare a livello popolare e nelle modalità con cui noi lo intendiamo, e per “loro” sarebbe stato concetto assai difficile da comprendere. D’altro canto però, sebbene con modalità diverse, questa concezione del corpo e dell’anima come due entità separate è stata da sempre proposta nelle varie società umane che si sono succedute o affiancate nel corso del tempo.

Van Lommel a dimostrazione di questa sua teoria cita anche casi di persone affette da Alzheimer che nonostante abbiano un cervello completamente compromesso e nonostante per anni non abbiano riconosciuto nessuno dei loro cari, prima di morire manifestano quello sprazzo di lucidità che li porta a riconoscere le persone a loro vicine. Anche questa circostanza è difficilmente spiegabile all’interno dell’attuale paradigma medico-scientifico, proprio per il fatto che il cervello è danneggiato. Risulta essere strutturalmente danneggiato. A parer suo questi “fatti” potrebbero essere circostanze spiegabili proprio dall’esistenza indipendente della coscienza dal corpo (cervello). È anche però vero che i familiari o il personale medico potrebbero fraintendere in senso più lucido di quanto non siano in realtà le ultime parole o gli ultimi momenti di vita delle persone malate di Alzheimer. Un po’ come la “fumosità” e l’enigmaticità dei responsi della Pizia (siamo all’oracolo di Delfi) inducevano i vari questuanti a vedere un fondo di verità in quelle predizioni del futuro. Il voler credere può comportare un credere che difficilmente riusciremmo ad individuare come scisso dalla nostra volontà (o dai nostri desideri). Lo dico in quanto una critica va pur sempre salvaguardata. Riguardo il punto di vista di Pim van Lommel leggetevi questa esplicativa intervista in cui lo scienziato rende chiaro il suo pensiero, sicuramente meglio di quanto ho fatto qua: https://www.lastampa.it/scienza/2017/03/26/news/cosa-significa-tornare-alla-vita-dopo-la-premorte-parla-il-cardiologo-che-studia-la-quasi-morte-1.34642597

Anche il medico terapista del dolore Davide Vaccarin che si era incontrato nel video iniziale si era allineato a questa interpretazione quando citava la teoria “quantistica dell’anima”, facendo probabilmente riferimento agli studi scientifici fin qui riportati. L’immagine con cui rende questa teoria è bella e suggestiva. È come se fossimo delle radio che riemettono il segnale di una certa frequenza che è comprensibile sotto forma di musica. Ma se la radio specifica (l’individuo) si rompe ciò non significa che non c’è più musica. Ciò non vuol dire che quell’onda che si comprendeva come musica non esiste più.

È vero che parlare di coscienza è sempre difficile. La nostra società (e mai questo termine ha avuto un’accezione così ampia come in questo momento storico) nel parlarne e soprattutto nello studiarla si concentra molto sul cervello. Ma molte altre società e culture erano di diverso avviso. L’anima (per certi versi equiparabile alla coscienza) nel Giappone medievale si riteneva fosse contenuta nelle budella della pancia. Ed era questa la parte del corpo che il samurai nell’atto del suicidio si apriva, proprio per mostrare al “pubblico” quanto la sua anima fosse pura sebbene non fosse riuscito ad adempiere ai suoi doveri. Ma anche nel mondo dell’antico Egitto il cervello era tenuto in poco conto come sede dell’anima. Durante la mummificazione, nei vasi canopi, si cercava di conservare con estrema cura il cuore, il fegato e altri organi interni, ma non il cervello. Il cervello non era minimamente preso in considerazione per la conservazione, se ne estraeva un pezzettino alla volta tramite le narici e lo si buttava via. Gli altri organi citati invece erano attentamente estratti e conservati con cura. D’altronde nell’aldilà il faraone aveva bisogno di tante cose, ma non del cervello. Anche nel nostro mondo occidentale fino ad un paio di secoli fa, a livello popolare, si riteneva che la sede delle sensazioni, della volontà e dell’anima fosse il cuore. Da qui gli innumerevoli detti e proverbi che rimandano al cuore. Solo recentemente lo studio della coscienza è uscito dalla pura speculazione. Non che la pura speculazione su questo argomento fosse e sia di intralcio. Tutt’altro. Però di certo la pura speculazione è meno prolifica rispetto alle prove sperimentali tanto care alla nostra civiltà. Una società che al tempo stesso è conseguenza e premessa della “prova sperimentale scientifica”.

Su questo argomento uno studio-riassunto sulla coscienza qua da citare può essere un articolo uscito su Science nel Giugno 2017: L’impronta della Coscienza di Christof Koch. L’articolo è scorrevole e si legge bene, ma per chi non riuscisse a trovarlo qua vi rimando ad alcuni suoi interessanti interventi:

Di certo riguardo ad interventi che riguardano la coscienza ne troverete davvero “a iosa” e di tanti e differenti punti di vista:

sul cervello in generale
del cosmologo precedentemente citato Tegmark: la coscienza come espressione di un modello matematico

Va anche detto che in riferimento alla coscienza e nel discutere del cervello, gli scienziati si dividono in due grosse “fazioni” (una semplificazione per cui gli specialisti del settore mi metterebbero davanti ad un plotone d’esecuzione, ma che d’altronde nella sua sinteticità è anche condivisibile): olisti e locazionisti.

Secondo gli olisti la coscienza è generata dall’intera massa del cervello: poco meno di 1,5 kg, circa 170 miliardi di cellule di cui più o meno la metà sono cellule nervose. I locazionisti affermano invece che specifici circuiti neurali sono responsabili di funzioni specifiche, coscienza compresa. I neuroanatomisti hanno individuato un’area delimitata, il tronco cerebrale, che ci protegge dal cadere in coma o in condizioni di letargia. Per lo meno in genere. Certe aree superficiali della parte posteriore del cervello, poi, sono necessarie per generare immagini mentali e altre specifiche esperienze consce. Per questo i “locazionisti” pongono maggiore enfasi in determinate aree del cervello.

cervello

Questo è dovuto anche a studi assodati in campo medico. Studi che collegano specifici e permanenti danni cerebrali a mutamenti della personalità di questi stessi individui. La relazione tra particolari lesioni del cervello e il cambiamento della personalità è ormai un dato di fatto assodato fin dagli studi di Harlow e del caso emblematico di Phineas Gage (vedere a titolo di veloce esempio: https://www.stateofmind.it/2018/11/disturbi-comportamentali-lesioni-frontali/ ). Ciò porterebbe ad escludere l’ipotesi che l’anima/coscienza possa sussistere in maniera del tutto indipendente da quel determinato cervello/organismo vivente (al netto di trovare ben chiara e delimitata una definizione condivisa di anima). A meno che non pensiamo all’anima/coscienza come un cumulo di memorie “registrate” che si possono trasferire da un “hardware” ad un “altro”. Una visione forse semplicistica e troppo legata alla tecnologia del nostro specifico mondo; una visione che a parere mio non rispecchia l’idea dei sostenitori di una “coscienza onniscente” scissa dal corpo. Forse il “prezzo” da pagare per “l’unione con una coscienza onnicomprensiva post-mortem” è proprio il dissolversi della nostra singolarità. Diciamo che ciò ci porterebbe a credere che pensare quindi che l’anima-coscienza possa sussistere in maniera del tutto indipendente da uno specifico cervello è affermazione assai ardua da provare. Se così fosse non saprei come potrebbe essere percepita dal singolo individuo (ma ciò non vuol dire che non possa così essere). È come parlare di una goccia d’acqua che non può percepirsi come goccia d’acqua all’interno del mare. Figura metaforica ben nota a tutti.

Ma parlare in questi termini è forse in netto contrasto (sebbene i contrasti sono il lato “vivo” e piacevole della nostra vita) con un mondo che procede a studiare il legame tra coscienza e cervello in maniera ben più “sperimentale”. E nell’ambito dialettico con cui sto procedendo in questo articolo è pertinente un esperimento/studio scientifico che contrasta con quel modo di pensare di stampo “buddista” (che ovviamente non è solo di stampo “buddista”).

L’esperimento è quello condotto da un gruppo di ricercatori della Yale University guidato dal prof. Nenad Sestan. Costoro sarebbero riusciti a ripristinare alcune attività metaboliche in cervelli di maiali morti da quattro ore e “staccati” dal resto del corpo. Un risultato che potrebbe cambiare il campo delle neuroscienze. Certo, tra le “funzioni” riattivate in questi cervelli di maiali morti non vi sono quelle riconducibili a ciò che potremmo chiamare “coscienza”, ovvero non è stato possibile “rianimare” il maiale. Nessuna consapevolezza riguardo a cosa siamo né tanto meno la capacità di provare dolore. Ma studi del genere potrebbero essere dei possibili apripista prolifici di altri risvolti.

Ritornando però alle esperienze di NDE voglio concludere riportando qua anche quei casi in cui le NDE non sono state riportate come esperienze piacevoli. Anzi. Sono pochi casi rispetto ai tanti estremamente positivi. Ma proprio per questo assumono un’importanza notevole. A riguardo è delucidativo il caso della signora Gloria Polo, una dottoressa colombiana che dopo essere stata colpita da un fulmine ha riportato in breve tempo due distinte esperienze di NDE. Qua potete vedere un articolo che ne parla in dettaglio https://it.aleteia.org/2016/06/17/gloria-polo-testimonianza-morte-risuscitata-paradiso-gesu-conversione/ . Al prima risveglio (dopo un arresto cardiaco) la signora ricorda una NDE sul modello che senza sminuirlo (tutt’altro) potrebbe essere definito standard, con i relativi topos estremamente piacevoli. Successivamente ricade in un’altra esperienza NDE in seguito ad una anestesia e da questo secondo risveglio invece riporta un ricordo ben meno edificante e ben più terrorizzante. Sebbene la conclusione dell’esperienze fu “meravigliosa”, si concluse infatti con una franca conversazione con Gesù, la figura divina in cui credeva e crede fermamente la signora Polo, quella prima parte della seconda NDE è sicuramente definibile come terrificante. Un’esperienza dove comparivano figure terribili, un’esperienza pervasa da un senso di vuoto profondo e terrifico, il ricordo di una specie di limbo equiparabili al purgatorio di cristiana concezione da cui era in procinto di sprofondare ancor più in un terrificante vuoto e dal quale si è salvata solo per l’intervento divino. La sua testimonianza ha avuto un forte eco soprattutto in ambito cattolico, religione da lei seguita e praticata. Non per niente è sempre proposta in siti cattolici e in manifestazioni legate a questo ambito (si veda per esempio questo filmato caricato su youtube: https://www.youtube.com/watch?v=2re0mUYGttM ). Questa seconda visione, riferibile in ambito cattolico al purgatorio o all’inferno, è comunque coerente con altre visioni ben meno idilliache di quelle “canoniche”. Solitamente le esperienze poco felici sono di questi tre tipi: 1)esperienze simili a quelle “positive” ma percepite dai soggetti come spiacevoli proprio per una totale mancanza di controllo da parte del soggetto medesimo. Questa mancanza di controllo è avvertita anche nei “ricordi” delle esperienze positive, ma in quel caso sono guidate da un senso di “pace”. Forse la differente percezione di una medesima situazione è da connettere all’individuale indole. Ma se così fosse ciò entrerebbe in contrasto con la concezione di una omnicoscienza. 2) sensazioni di “non esistenza”, come il trovarsi in un vuoto assoluto in cui si è completamente soli. Si tratta di una delle paure umane più grandi riguardanti la condizione di post-mortem. È questa la situazione sperimentata dal ragazzo “annegato” a Milano di cui si è riportato in sintesi la storia precedentemente. 3) impressione di trovarsi al buio e al freddo, spiati da esseri non amichevoli; sensazioni simili all’affogamento o al soffocamento. Riguardo a queste tre negative tipologie di esperienze NDE vale la pena risottolineare che anche qua non sono rilevabili particolari connessioni tra l’estrazione sociale o la provenienza geografica degli individui con la relativa tipologia dell’esperienza avuta.

Io qua non voglio esprimere un’opinione che vi parli di una “verità”. Le verità nel mondo degli uomini sono limitate al contesto sociale, temporale, fisico. Siamo il cumulo degli eventi che cerca di vivere e per questo spinge, si materializza. Un cumulo di eventi trapassati da materia e idee. Loki riecheggia in questo mondo e ci parla.

Leonardo Massi (Aprile – Giugno 2020)

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