La terra, cosmologie e forme
Abbiamo i piedi sulla Terra. La Terra non è il pianeta; è il fango, è la roccia, è ciò che abbiamo sotto i piedi. E ciò che abbiamo sotto i piedi si estende ad inglobare la Terra, l’intero pianeta. La Terra non era il nostro pianeta, ma lo è diventato. Noi siamo fatti di Terra. Adamo, il primo uomo. Adamo nella prima lingua conosciuta, il sumerico, significa ADA-MU ovvero padre mio. Ma l’ebraico non è sumerico seppure la contaminazione c’è stata, seppure ogni religione è per sua natura conservativa fino a quando come un terremoto spezza la terra sotto i piedi degli uomini e li fa cadere in una nuova visione. Le religioni, le più grandi rivoluzioni dell’umanità. La scienza è una religione. è un legame con ciò che ti circonda, con ciò che percepisci e vorresti capire. Ma Adamo è nome attestato prima in ambito ebraico, lingua semitica che ha ben poco a che vedere con una lingua agglutinante e antichissima come quella sumerica. In ebraico Adam è connesso alla parola adama, “terra”, “suolo”. Anche il nome sumerico è connesso alla Terra “divina”, nella mitologia sumerica così come nella bibbia l’uomo deriva dalla Terra intrisa dell’umidità frutto dell’essenza divina. Adamo d’altronde è anche il rosso, come la terra rossa del deserto. Come il rosso del sangue che gli dèi sumeri sacrificarono per far nascere l’uomo. Rosso come la terra.
Se noi siamo terra, come è fatta la Terra su cui camminiamo? Senza aver mai visto uno specchio, come ci descriveremmo noi?
La Terra è instabile, giace forse sopra un animale? Per i Minangkabaus di Sumatra la Terra poggia sulle corna di un bufalo immane, il quale poggia su un uovo, il quale poggia su un pesce gigante
Ma la creazione, come ogni nascita, richiede il sacrificio. Nei Veda il sacrificio è l’uomo. Tutto è uomo. Dersu Uzala l’ha detto e noi l’abbiamo sentito. Purusha, l’uomo cosmico dal cui sacrificio tutto si è generato. Ma solo un quarto di Purusha noi possiamo vedere, il restante tre quarti è a noi non visibile. Chi ha ucciso Purusha? Egli è il sacrificio da cui nasce il mondo. Tutto è Purusha, nelle sue parti.
Nell’inno (X, 90) del Ṛgveda, detto anche Puruṣa sūkta, un inno del tardo periodo vedico, il Puruṣa è descritto come tanto vasto da coprire e lo spazio e il tempo; ma di questo essere immenso, che può essere visto come la personificazione della realtà ancora immanifesta, è visibile soltanto un quarto. Da questo quarto ebbe origine innanzitutto il principio femminile (virāj) e quindi l’umanità. Il Puruṣa venne poi steso per terra dai deva e offerto in sacrificio secondo il rito, affinché avessero origine il mondo, gli animali, le caste, altri dèi, e i Veda stessi:
«Da questo sacrificio, compiuto fino in fondo, / si raccolse latte cagliato misto a burro. / Da qui vennero le creature dell’aria, / gli animali della foresta e quelli del villaggio. // Da questo sacrificio, compiuto fino in fondo, / nacquero gli inni e le melodie; / da questo nacquero i diversi metri; / da questo nacquero le formule sacrificali.»
https://it.wikipedia.org/wiki/Puru%E1%B9%A3a
citazione da: Ṛgveda X, 90, 8-9; citato in Raimon Panikkar, I Veda. Mantramañjarī, a cura di Milena Carrara Pavan, traduzioni di Alessandra Consolaro, Jolanda Guardi, Milena Carrara Pavan, BUR, Milano, 2001.
Il sacrificio è dunque l’atto col quale il mondo viene creato: l’Uomo cosmico, il Puruṣa, sacrifica una parte di sé per dare origine all’umanità e all’universo. Per tre quarti però il Puruṣa resta «in alto», trascendente, privo del suo quarto immanente, ed è tramite il sacrificio stesso (yajña) che l’umanità restituisce al Puruṣa, in quello che come fa notare il teologo Raimon Panikkar, è un dinamismo duplice.
«Con il sacrificio gli Dei sacrificarono al sacrificio. / Quelli furono i primi riti stabiliti. / Queste forze salirono fino al cielo / dove risiedono gli antichi Dei e altri esseri.» |
(Ṛgveda X, 90, 16; citato in Raimon Panikkar, Op. cit., 2001, p. 101) |
è un discorso che accomuna molto il teologo R. Panikkar all’antropologo R. Girard. Il sacrificio come fondamenta del reale da una parte, e come fondamenta del mito e quindi delle società dall’altra.
(Visione dell’Hinduismo, descrizione tratta da sito che descrive Hinduismo e le basi dello Yoga che molto si basa sulla relativa voce Brahma di wikipedia): L’universo secondo gli hindu è una realtà destinata a scomparire o meglio ad entrare in un periodo di latenza, di non manifestazione (avyakta) da cui riemergerà con una nuova emanazione (detta anche sarga). Tutto questo accade da sempre e per sempre accadrà. Colui che provoca ciò possiede l’appellativo di Bhagavat (Colui che è divino, che è degno di adorazione, l’Essere supremo eterno e inconcepibile) o anche di Svayambhu (Esiste da se stesso), e la compie al solo fine del gioco (līlā).Il processo di emanazione si avvia con la fuoriuscita delle acque dove egli pone il proprio sperma generando l’uovo/embrione d’oro (hiraṇyagharbhaḥ). Il non generato, il Bhagavat, prende al suo interno la forma di Brahmā. Dopo essere rimasto per un secolo nell’uovo d’oro, Brahmā lo rompe fuoriuscendone, creando quindi nella parte superiore dell’uovo il mondo celeste, nella parte inferiore la terra e in mezzo lo spazio, l’etere. Tutto l’universo coincide con l’uovo di Brahmā (Brahmāṇḍa). Con l’universo Brahmā genera i deva, il tempo, gli astri e i pianeti, le terre con i monti, gli oceani, i fiumi, ma anche delle potenze impersonali come l’Ascesi (tapas), la Parola (vāc), il Desiderio (kāma), gli opposti (caldo-freddo, Dharma-Adharma, ecc.). E come il Puruṣa del Veda genera l’umanità ripartendola nelle quattro funzioni corrispondenti ai Varṇa (termine sanscrito con cui la cultura hindū intende indicare il proprio sistema delle caste). Le tre forme principali delle manifestazioni divine sarebbero espresse dalla nozione di Trimurti, che esprimerebbe la forma triplice dell’essere supremo induista che si manifesta nelle tre divinità di Brahmā (il creatore), Visnù (il preservatore) e Śiva (il distruttore) (a essa corrisponderebbe anche un’altra trinità femminile scissa da quella maschile). Terminata la genesi dei mondi, e terminati i cicli della loro manifestazione, il fuoco di Śiva distrugge ogni cosa e Brahmā riassorbe tutto entro di sé, addormentandosi e quindi scomparendo.
Ma nel nostro piccolo la Terra è questa: un pezzo di terra sorretto da quattro elefanti giganteschi che poggiano sul carapace di una tartaruga, il tutto collocato sopra un enorme serpente.
(In questa visione c’è molto di collegamento con la trinità cristiana seppur con marcate differenze; e molto, forse ancor più, quasi un legame ancestrale, c’è di collegamento tra tale escatologia e cosmologia con quella norrena. Si veda Loki: le origini, Ymir, la fine del mondo, il serpente che a seconda delle due versioni cinge la Terra o la sorregge ecc.)
Ma sotto la Terra potrebbe esserci solo mare. La Terra come un sottilissimo strato adagiato sul mare, così alcuni antropologi hanno raccolto la cosmologia di gruppi di eschimesi inuit abitatori di coste ora appartenenti al Canada. Da questo punto di vista condividevano qualcosa con il greco Talete: anche per lui la Terra era un’isola che fluttuava nel mare che era ciò che rimaneva dell’umidità che vi era all’origine intorno alla Terra. Un suo discepolo, Anassimandro seguiva il maestro nell’immaginare la Terra circondata dall’acqua ma si era proposto di dargli anche una forma. Così nei suoi studi cartografici, propose una terra cilindrica. Però contrariamente a quello che si potrebbe pensare, almeno stando alla convincente interpretazione di fine ‘800 apportata dall’astronomo Schiapparelli, la superficie “popolata” non doveva essere quella piatta bensì quella convessa.
Anassimene invece nonostante gli attribuisse una forma simile ma più sottile, si immaginava la Terra fluttuare nell’aria. Una tavola piatta che fluttua leggera nell’aria che compone l’intero universo.
La Terra sferica e il suo calcolo
Ad ogni modo nel mondo greco la Terra venne calcolata sapientemente e con gran precisione. Per quanto ne sappiamo le ipotesi sulla sfericità della superficie terrestre risalgono a Pitagora (VI sec. a.c.). Aristotele poi fornì numerose prove fisiche sulla sfericità della Terra. D’altronde in linea generale e al di là delle prove più argute, la maggior parte sono prove “facilmente” desumibili per un popolo che vive di fronte al mare e che dal mare e dalla navigazione trae così tanta “linfa”. Ma addirittura nel III secolo a.c. si arrivò a calcolarne con grande precisione la circonferenza. Fu Eratostene di Cirene, greco per cultura e africano per geografia, che senza l’ausilio di particolari strumenti arrivò a sbagliare di soli 600 km la stima della circonferenza terrestre (rispetto ai 40.075 km di circonferenza equatoriale e ai 39941 della circonferenza passante per i poli) Sa di magia, eppure utilizzò un ragionamento per arrivarci.
Il ragionamento ed il conseguente procedimento applicato era descritto in un’opera che consisteva di due libri e dal titolo alquanto delucidativo: Sulla misura della Terra. Un’opera che purtroppo è andata perduta. Fortunatamente ad esserci pervenuta è stata una versione dichiaratamente divulgativa, e quindi volutamente semplificata, riportata all’interno di un’opera sui “moti circolari dei corpi celesti” di un altro astronomo e matematico greco, Cleomede. Di questo erudita si sa ben poco al di là della summenzionata opera e del periodo in cui visse, di certo molto successivo ad Eratostene (sicuramente dopo il I sec. a.c.) . Va detto che la conoscenza e il considerare la Terra come sferica era un qualcosa di assolutamente naturale e scontato all’interno del mondo greco e latino-romano.
Questa è la Terra che noi vediamo:
E questo è grosso modo il ragionamento e il metodo utilizzato per calcolarne la circonferenza:
Eratostene (circa 276 a.C. – circa 194 a.C.) stimò la misura della circonferenza della Terra in 252.000 stadi. Sapendo che uno stadio egizio corrisponde a una lunghezza tra i 155 e i 160 metri, ciò corrisponde a una misura corretta con un errore tra il -2.4% e il +0.8%. La misurazione era descritta in un’opera Sulla misura della Terra ma l’opera è andata perduta. Tale misurazione è arrivata fino a noi solo in un riassunto divulgativo incluso in un’opera di Cleomede. L’ipotesi di partenza fu che al solstizio estivo a Siene (la città che oggi è chiamata Assuan) il Sole era allo zenit (ossia che Siene sia esattamente sul Tropico del Cancro), mentre ad Alessandria gettava ancora un’ombra e che la distanza tra le due città era di 5.000 stadi. In questo modo l’angolo di incidenza dei raggi solari rispetto alla verticale misurato ad Alessandria corrisponde all’angolo con il vertice al centro della Terra. Il valore che Eratostene ottenne per tale angolo fu di 1/50 dell’angolo giro, di conseguenza con una semplice proporzione la misura della circonferenza doveva corrispondere a 250.000 stadi. In realtà tale cifra così tonda si può attribuire al fatto che Cleomede stesso introduca l’argomento affermando di semplificare i calcoli perché il lettore potesse seguirli (come molto spesso leggiamo in opere di divulgazione al giorno d’oggi) infatti pur dando 252.000 come valore ottenuto da Eratostene, dal procedimento descritto da Cleomede otterremmo 50 x 5000 = 250.000. E’ molto probabile che l’intera misurazione, come ricostruito da Lucio Russo, sia stata effettuata dai mensores regii, misuratori regi incaricati di effettuare misure capillari del territorio egiziano per fini fiscali, con Eratostene a capo del progetto.
https://it.wikipedia.org/wiki/Sfericit%C3%A0_della_Terra
Nell’immagine 1 vediamo la misura del meridiano terrestre secondo la versione semplificata di Cleomede, basata sulle assunzioni errate (ma non di molto) che Siene si trovasse sia sul Tropico del Cancro, sia sullo stesso meridiano di Alessandria
Cleomede prende in considerazione due città, Alessandria d’Egitto e Siene, l’odierna Assuan; partendo dalla considerazione che l’interno di un pozzo a Siene veniva completamente illuminato dal Sole a mezzogiorno della giornata del solstizio d’estate, ovvero del 21 giugno, dedusse che in quel momento i raggi del Sole dovevano essere perfettamente perpendicolari al pozzo (e quindi il sole dovesse trovarsi esattamente allo zenit). In quello stesso momento (stesso giorno e stessa ora) ad Alessandria, città che per semplificazione si poneva sullo stesso medesimo meridiano di Siene, invece il sole non era perpendicolare alla Terra. Con un palo/stecco fissato a terra si poteva calcolare che l’inclinazione dei raggi solari rispetto alla terra fossero di 7° e 12′, questo infatti equivaleva alla misurazione dell’inclinazione (e quindi dell’angolo) dell’ombra-ipotenusa rispetto al bastone(palo)-cateto e al cateto prodotto a terra dall’ombra del palo medesimo. Cosa che già di per se stesso dimostrava, ennesima prova, che la Terra fosse rotonda-sferica.
Così Eratostene fece misurare accuratamente la distanza tra Siene e Alessandria d’Egitto ottenendo una distanza di 5000 stadi egizi (equivalenti grosso modo a 785 km attuali); inoltre l’angolo che aveva misurato tra Siene e Alessandria, ovvero 7° e 12′, era grosso modo 1/50 dell’angolo giro (ormai poteva affermare che la Terra fosse tonda vista la differenza di angoli) che avrebbe compreso tutta la superficie terrestre, ovvero 360°. Infatti 360° diviso 7° 12′ = 50 (grosso modo). La proporzione degli angoli rispecchia la proporzione delle distanze, sapendo che la distanza tra Siene e Alessandria era di 5000 stadi egizi (785 km), bastava moltiplicarla per 50 per ottenere così la circonferenza terrestre. Ciò vuol dire che (1 stadio egizio = 157.5 metri) la Terra risultava avere una circonferenza di quindi 39.375 km (contro i 39.941 reali della circonferenza polare), un errore dell’1,4% circa. La cosa è decisamente impressionante. (Una spiegazione forse migliore la trovate: https://spazio-tempo-luce-energia.it/%C3%A8-possibile-determinare-forma-e-grandezza-della-terra-senza-muoversi-dalla-sua-superficie-f5b1b6dc5814 )
L’immagine sotto aiuta a visualizzare il ragionamento.:
In realtà il metodo di Eratostene era più complesso, come ci dice lo stesso Cleomede che ammette di farne una pura semplificazione. La stessa misurazione tra Siene e Alessandria doveva essere assai rigorosa essendo basata molto probabilmente su una campagna di misurazione avvenuta per mezzo dei mensores regii, funzionari regi incaricati di effettuare misure capillari del territorio egiziano a fini fiscali. Si consideri poi che la misura effettivamente trovata di 252.000 stadi potrebbe essere significativa: si tratta infatti di un numero divisibile per tutti i numeri naturali da 1 a 10, un dato di fatto che non poteva esser sfuggito ad un matematico quale egli era. Secondo un’interpretazione, Eratostene avrebbe alterato i dati per ottenere questo risultato «utile». I numeri hanno un loro significato, a maggior ragione se essi incontrano i significati che gli attribuiamo tanto meglio …
Questo era la Terra dalla Grecia in poi nel mondo occidentale (a livello colto):
Questa Terra sferica attraversò il mondo latino e da esso fu convogliata anche nel mondo cristiano. Le rappresentazioni grafiche dei dottori della chiesa cristiana vennero spesso confuse successivamente come rappresentazioni di una Terra piatta, ma in realtà fu la successiva volontà di vedere nel Medioevo europeo un periodo completamente oscuro e retrogrado a leggere in tal modo le loro mappe. Sebbene la prospettiva dei dottori della chiesa fosse quella di proiettare le sacre scritture bibliche sul mondo circostante, questi personaggi colti erano ben consapevoli della sfericità della Terra e le loro rappresentazioni di una terra circolare avevano lo scopo anche di rappresentarne la sfericità. Per esempio, sebbene la rappresentazione bidimensionale della Terra di Isidoro di Siviglia possa generare ambiguità, a chi la vuol vedere, nei suoi testi egli parla espressamente di un globo. Quella del vescovo spagnolo Isidoro di Siviglia vissuto a cavallo del VI sec. fu una delle più note e diffuse medievali rappresentazioni della Terra (sferica) (Fig.2).
In Fig.2 vi è uno dei primi esempi di mappa orbis terrae stampata (stampata ad Augusta nel 1472 da Guntherus Ziner, ovvero poco prima della scoperta dell’ America). Si tratta per l’appunto dell’illustrazione della prima pagina del capitolo 14 delle Etimologie di Isidoro di Siviglia e rappresenta i continenti come domini dei figli di Noè: Sem-Asia, Cam-Africa, Jafet-Europa. Non fu l’unico tra i dotti cristiani a rappresentare la Terra in questo modo, tutt’altro. Ma l’importanza culturale di Isidoro fu così notevole che si prende la sua rappresentazione (per altro sono tutte molto simili) a modello. Queste mappe vengono definite mappa mundi oppure a schema T e O (soprattutto in ambito anglosassone, “T and O scheme”). La seconda denominazione ne descrive esattamente la rappresentazione: una terra riprodotta in forma circolare (come detto anche per simboleggiare la sfericità terrestre) con il mar Mediterraneo a forma di T a dividere i tre continenti circondati da un immenso oceano a forma di O. Queste mappe sono tipicamente disegnate con l’est in alto e l’ovest in basso, di conseguenza il nord si trova a sinistra e il sud a destra. All’estremo oriente si trovava il Paradiso Terrestre, un vero e proprio luogo fisico, mentre al centro della superficie terrestre vi è Gerusalemme con tutto il suo valore altamente simbolico. D’altronde le equivalenti mappe del mondo di matrice islamica, seppur più precise e puntuali grazie ai contributi di eminenti geografi come Al Idrisi, riproducevano pur sempre una terra di forma circolare (sempre a designarne anche la sfericità) circondata da un immenso oceano, ma avevano una marcata e visibilissima differenza: al centro non c’è Gerusalemme bensì La Mecca, il luogo santo dell’Islam.
Nella Fig.3 è rappresentato il mondo secondo la visione del geografo islamico Tusi Salmani ed è tratta da un manoscritto del 1388 d.c. È presa dal sito web della Bibblioteca Nazionale Francese. Il titolo originale del manoscritto è Kitab Aja ib al-Makhluqat wa Ghara ib [al-]Maujudat ed è stata presa dal sitoweb della Biblioteca Nazionale Francese. In verità l’attribuzione della carta è un po’ problematica in quanto il nome dell’autore non compare nel manoscritto. Ciononostante Hajji Khalifa, storico e geografo ottomano del XVIII secolo, attribuisce questo scritto a Mohammed bin Mahmud bin Ahmad al-Tusi al-Salmani, conosciuto in occidente semplicemente come Tusi Salmani.
Visioni diverse
Ma non tutti sono stati d’accordo con l’idea di una Terra sferica. Nel VI secolo il mercante e filosofo cristiano Costantino di Antiochia, noto successivamente con lo pseudonimo di Cosma Indicopleuste, nome che ne indicava sia gli interessi sia i lunghi viaggi effettuati, affermò in un trattato cosmologico-topografico che la Terra fosse piatta e di forma rettangolare. Un rettangolo ben misurabile, con il lato lungo il doppio di quello corto, ovvero rispettivamente di 18000 km e di 9000 km.
La Terra al centro della mappa (Fig.4) è quella attualmente abitata dagli uomini ed è circondata dall’oceano che è a sua volta delimitato nei quattro lati da una terra periferica. All’estremo oriente di questa terra-bordo si trova l’Eden, il meraviglioso paradiso terrestre descritto nella Genesi biblica.
Questa Terra piatta e rettangolare sembra come contenuta in una specie di baule dove le stelle sono paragonabili a luci appese alla volta del baule (la volta celeste) e dove la pioggia cade trasportata dagli angeli. Una Terra in fondo ad un immenso baule/tabernacolo che a differenza di altri modelli cosmologici antichi, non poggia né sull’acqua né sull’aria, ma è semplicemente in equilibrio sul nulla.
Cosma Indicopleuste non fu il solo ad andare contro i teorici di una Terra sferica. Questo sebbene come abbiamo precedentemente visto non c’era nessun bisogno del successo della spedizione di Cristoforo Colombo per “sapere” con certezza che la Terra fosse più o meno sferica. Gli intellettuali cristiani già lo sapevano da tempo. Ciononostante sia nel primo periodo cristiano che nel Medioevo furono popolari alcuni modelli terrestri alternativi ad una terra “rotonda”. La “scoperta” dell’America e le immediatamente successive scoperte geografiche non dimostrarono che la Terra fosse sferica, semplicemente fecero vedere che era proprio così come era stata pensata. Parlare di “scoperta” dell’America poi ha sempre un qualcosa di ambiguo. I vichinghi erano già approdati in quelle terre ma la notizia non si diffuse altrove dove avrebbe potuto avere altri risvolti. Di certo però da quando Cristoforo Colombo mise piede in America con la consapevolezza di navigare verso occidente per approdare nelle terre a lui orientali, nulla fu più come prima. Non più un libro poteva essere preso a fondamento dell’umano conoscere geografico. La terra divenne essa stessa libro. Tutta una serie di mondi teorici che diventavano reali quando passavano attraverso gli occhi dei loro seguaci divennero improvvisamente obsoleti e illusori. Una teoria era diventata tangibilmente “vera”. Le stesse esigenze di riforme in seno alla chiesa cristiana che si erano succedute nei secoli, ora non potevano più essere riassorbite, ed esse deflagrarono rumorosamente nell’erezione di nuovi mondi basati su una nuova ontologia. Da qui il protestantesimo e tutto ciò che ne conseguì. Compresa la caccia alle streghe e quant’altro che oggi reputiamo meno “d’avanguardia”.
Ma tornando ai modelli alternativi di Terra, questi erano sì presenti nel mondo occidentale ma va detto che anche il resto del mondo non restò di certo nell’apatia speculativa. Per esempio, il tabernacolo-cosmo di Cosma aveva una sua certa corrispondenza nell’interpretazione data al mondo da Liu An nel II sec. a.c. Liu An era uno dei padri fondatori della filosofia taoista ed aveva generato una concezione della terra e del mondo molto precisa. Ve la presento. In essa tutto ciò che è manifesto è plasmato (è stato fondato) da due principi fondamentali, questi sono lo Yin e lo Yang. Attraverso un soffio lieve lo Yin ha prodotto il cielo, mentre lo Yang attraverso un soffio più pesante ha prodotto la Terra. La Terra ha una forma ben precisa, la sua base è un quadrato, mentre il cielo è “rotondo”. Nel quadrato costituente la Terra non troviamo il paradiso terrestre, ma bensì l’impero cinese che ha una forma rettangolare ed è circondato da altre fasce di terra. Ai limiti estremi di questa Terra quadrata ci sono otto porte, quattro poste ai vertici e quattro poste esattamente a metà di ogni lato. In questi luoghi posti agli estremi confini della Terra dimorano anche i nove draghi leggendari. Ma la regione più mistica di questo mondo è quella di nord-ovest, qua si trova una montagna da cui si può ascendere al cielo.
Forse più semplice ma di certo non meno piatta è la Terra dei Dieri (Diyari), gruppo di Aborigeni del sud dell’Australia. Dal deserto australiano la Terra era considerata sì piatta, ma con una particolarità: il sole al termine della giornata non andava sotto la Terra, ma entrava direttamente in essa. Vi è un buco nella Terra ad ovest, là entra il sole quando termina il suo percorso in cielo, e qua trova un tunnel sotterraneo che percorre nella sua lunghezza fino a fuoriuscire ad est per risorgere ancora. E ancora. Giorno dopo giorno. La Terra è l’universo.
La “scoperta” dell’America e significato
Ad ogni modo sebbene dai tempi dell’antica Grecia si era già calcolato abbastanza esattamente le dimensioni della circonferenza terrestre, questa era ben lungi da essere conosciuta. A questo mondo mancavano ancora alcune sue gigantesche terre. Si era identificata la dimensione terrestre ma non si sapeva come fossero “le terre” in essa calpestabili. Tra cui mancava la consapevolezza (nel mondo greco e occidentale ma anche orientale asiatico) dell’esistenza dell’intero continente americano. La più grande mancanza era senza dubbio l’America.
La scoperta e la “presentazione” al mondo del nuovo continente che si andrà a chiamare America trasformò letteralmente quello stesso mondo in un posto del tutto nuovo senza possibilità di ritorno indietro. La descrizione letteraria della terra da parte della Bibbia era sbagliata e su questo non c’era più discussione. I dubbi sono sempre all’ordine del giorno, avere un’incrollabile fede non significa non avere dubbi. Come insegna l’esempio della candida fede di madre Teresa di Calcutta. Ma nessun dubbio si sarebbe potuto trasformare in qualcos’altro prima della scoperta dell’America. Con quell’evento la terra si sbriciolò letteralmente sotto i piedi degli uomini di fede cristiana, per ricostituirsi con fatica e dolore in una nuova Terra. Il fermento creato da questa scoperta produsse un nuovo mondo. Allo stesso tempo produsse un’isteria collettiva che si concretizzò in varie maniere, non ultimo nei roghi e nella caccia alle streghe che caratterizzarono l’inizio dell’età moderna in maniera incommensurabilmente ben più decisa di quanto fece nel Medioevo. Periodo quest’ultimo in cui contrariamente alle credenze popolari erano tutt’altro che frequenti. La messa al rogo del frate domenicano Giordano Bruno e la condanna di Galileo Galilei sarebbero state quasi impensabili prima della scoperta dell’America. Così come forse sarebbero state impensabili le convinzioni (“poco dubbiose”) di quegli stessi personaggi.
La scoperta dell’America deflagrò come un qualcosa che non aveva precedenti in tutta la società medievale e non solo nelle alte cerchie intellettuali. Il protestantesimo e la rivoluzione scientifica fecero da contraltari ad un nuovo mondo da esplorare. Un nuovo mondo da conoscere e per conoscerci. Un nuovo mondo che ci ricordava che noi esseri umani siamo esploratori. Esploratori in tutti i sensi, così come quel nuovo mondo era un nuovo mondo in tutti i sensi. Un nuovo mondo in cui lo spazio era cambiato.
Non perché Cristoforo Colombo avesse affermato che la terra fosse tonda mentre la Chiesa a sua volta , con la sua propaggine dell’Inquisizione, affermasse all’opposto che fosse piatta. No. Tutt’altro. Che la Terra fosse “rotonda”, come detto più volte, già lo sapevano tutti. Almeno chi lo voleva sapere. Anzi credo che questa sia stata una delle poche discussioni in cui l’Inquisizione avesse avuto piena e totale ragione. La Terra era tonda per tutti, il problema era capire quanto fosse grande. La Chiesa diceva semplicemente che sebbene fosse vero che partendo dalle propaggini più occidentali del mondo conosciuto, da là dove si iniziava a numerare la longitudine di ogni carta geografica, e continuando a navigare verso ovest, era vero che si sarebbe prima o poi trovata la Cina (la destinazione di Colombo), ma la spedizione non ci sarebbe mai arrivata perché la distanza era ben maggiore da quella supposta da Colombo. Si sarebbero persi nello sterminato oceano. Il problema era che secondo la Chiesa, che costituiva la parte di gran lunga più colta di quella società, la Terra era ben più grande di quanto Colombo la considerasse. E aveva ragione. Colombo si sarebbe perso nello sterminato oceano se non fosse che sbatté contro una terra sconosciuta e del tutto impensabile fino a quel momento. Colombo aveva semplicemente sbagliato i calcoli. O meglio aveva preso per buoni i calcoli sbagliati di un cartografo toscano che non celava le origini nel suo stesso nome, Toscanelli. Paolo dal Pozzo Toscanelli aveva sbagliato a considerare lo stadio greco (sottostimandolo), riproducendo l’errore commesso a suo tempo da Tolomeo sulla sua opera Geografia, un’opera da poco ritrovata. Un ritrovamento eccezionale che aveva prodotto grande entusiasmo e fermento nella società colta del tempo. Presumibilmente proprio sulle ali di questo entusiasmo, Toscanelli considerò a cuor leggero i dati e le stime lì riportate inducendo poi lo stesso Colombo a prenderli per buoni. Sia chiaro, Paolo del Pozzo Toscanelli era un grande matematico, architetto e cartografo; uno studioso assai stimato dal Brunelleschi e uno dei punti di riferimento per la cultura basso medievale. Colombo non aveva riposto la sua fiducia sul primo sprovveduto così come oggi potrebbe capitarci se ci affidassimo alle considerazioni non verificate che il primo illuminato tuttologo scrive su qualche social-network. Ad ogni modo ciò indusse Colombo a pensare che la terra fosse molto più piccola delle sue reali dimensioni. Fortuna vuole che la fortuna aiuta gli audaci; e Colombo fu decisamente audace.
Ma perché Colombo voleva arrivare nell’estremo Oriente? Al di là di ogni motivazione umana (la voglia di emergere, la volontà di incidere sulla realtà, forse anche il solo voler dimostrare di essere intelligente o quant’altro ancora) è ovvio che il motivo principale su cui puntò nel cercare finanziatori fu quello prettamente economico. Un uomo dedito al commercio come Colombo non poteva essere insensibile al richiamo di questa grandiosa opportunità. L’obiettivo era riattraversare il mondo conosciuto come fece Marco Polo anni prima (ammesso e non concesso che sia andata davvero come Marco Polo dice anche al netto delle sue probabili esagerazioni), ma questa volta passando da una via di gran lunga più breve, quella ad Occidente. Il tutto per raggiungere le tanto bramate spezie. Cannella, noce moscato e cose affini. Le stesse che oggi compriamo al supermercato per pochi spiccioli. All’epoca invece erano una notevolissima fonte di ricchezza su cui puntare per ottenere finanziamenti, in primis dai sovrani della nascente Spagna.
A fianco a ciò credo però che il motivo prettamente religioso non debba esser messo da parte. Credo anzi che forse sia proprio quello la sorgente da cui si alimentava l’ostinata determinazione di Colombo. Se è pur vero, come enunciano le mitologie più antiche, che il nome è l’atto di fondazione di qualsiasi cosa, Colombo portava nel suo stesso nome proprio (Cristoforo) non solo l’incipit della sua vita ma anche e soprattutto il suo “moto-obiettivo”. Cristoforo deriva dal greco antico (ma vale lo stesso in latino) “Christos phero”, che significa per l’appunto “portatore di Cristo”. Credo che ci tenesse particolarmente al suo nome proprio, forse ben più che al suo nome di “famiglia”. A conferma di ciò posso citare il fatto che le sue lettere-missive erano sempre firmate con il primo nome e mai (o per lo meno assai raramente) con il cognome. E d’altronde anche la “carta-religione” funse da centrale punto di forza per accattivarsi il favore dei regnanti di un regno che si ergeva sulla “Reconquista” cristiana di terre in mano a mussulmani. Il fervore religioso cristino dei regnanti spagnoli non era in discussione. Essi dovevano guardare necessariamente ai risvolti economici, ma il loro fervore cristiano è provato anche dalla loro conseguente linea politica (a volte ciecamente cristiana). Ma se queste sono considerazioni, invece un dato balza subito all’occhio a supportare quanto sto affermando. La croce di Santiago che era riprodotta sulle vele delle tre caravalle che sotto il comando di Cristoforo Colombo scoprirono il nuovo mondo, era dovuto proprio al fatto che tra i maggiori finanziatori di tale spedizione (e quindi dall’importante risvolto evangelizzatrice) vi era proprio l’Ordine di Santiago. Portare la parola di Cristo (letteralmente il suo nome) doveva avere un valore primario per Cristioforo Colombo. Ben credo che dovesse averlo sentito come parte della sua missione, come parte della sua stessa ragione d’esistere. Anche se va detto che gli esseri umani in cui poi si imbatté furono resi schiavi prima di essere resi cristiani. Motivi economici, prettamente e “volgarmente” umani si dirà. Ma a distanza di tempo e di spazio tutto pare diventare facilmente “comprensibile”. In “realtà” il punto di vista “soggettivo” (ammesso e non concesso che qualcuno di noi lo abbia estremamente chiaro e limpido davanti a sé) sfugge ad ogni realtà esterna a quel medesimo punto di vista. (Loki lo dice assai chiaramente. Una punta di autoreferenzialità è assai difficile da evitare. Ammesso e non concesso che sia possibile evitarla,).
Colombo approdò ad una terra di cui era sicuro trattarsi della Cina, o del Giappone o di qualcosa che comunque fosse nelle loro vicinanze. Ma non era così. Il problema consisteva nel fatto che fosse anche incredibilmente difficile poter pensare che non si fosse arrivati in quelle terre lontane di cui si sapeva vagamente qualcosa. Tutti pensavano che al di là del vasto oceano vi fosse la Cina, così Colombo era sicurissimo di essere arrivato in Cina. D’altronde il viaggio era stato finanziato dalla monarchia spagnola, forse più coraggiosa o bramosa di ricchezze (o altro) di quella portoghese che rifiutò di assecondare Colombo, proprio per favorire i commerci delle tanto bramate spezie. Riconoscere che quella terra non fosse l’Oriente era il fallimento della spedizione. Ma in certo qual modo era anche molto di più. Era il fallimento della concezione di un mondo. Ma così fu. Colombo aveva sbattuto su una terra del tutto nuova di cui si ignorava totalmente l’esistenza. L’incomprensione che ne seguì, ancor prima di deflagrare nelle rivoluzioni scientifiche, religiose e di altra natura, fu così notevole che ancora quelle terre ne portano il segno. Nella stessa topografia. Si pensi alla penisola dello Yucatan, letteralmente “io non so quello che dici” in lingua locale e che invece gli spagnoli interpretarono con una certa sicurezza nel nome proprio di quella terra. Si pensi alla stessa denominazione di quelle popolazioni locali chiamate per l’appunto indios proprio perché si pensava di essere approdati nelle Indie orientali. Si pensi a cosa significasse per popolazioni dedite a cruenti riti con sacrifici umani veder sbarcare dall’oceano sconfinato, dal nulla e su grosse navi, degli uomini che veneravano un dio morente che sanguinava da una croce.
Genti autoctone che veneravano divinità bramose di sangue umano. che da gigantesche piramidi anche per gli europei dell’epoca, sacrificavano migliaia di prigionieri per nutrire le loro divinità. Cos’hanno pensato quando si confrontarono con quegli uomini o semi-divinità che veneravano un dio dalle fattezze umane sacrificato e da cui sgorgava sangue?
Pensate solamente al giorno dei morti che ancor oggi si venera in quelle terre all’interno del rito cristiano-cattolico con tutte le sue peculiarità derivanti da quel sostrato di divinità che si nutrivano del sangue degli uomini. Pensate all’attuale venerazione di Nostra Signora della Santa Morte, o semplicemente detta Santa Morte. È pur vero che le religioni hanno sempre un qualcosa di conservativo anche al passare di una nuova visione, ma qua concorre anche ben altro. Qua non si tratta di “una rivoluzione copernicana”, qua si tratta dell’edificazione di una nuova Terra, in Europa come in America e nel resto del mondo.
Non si riuscirà ma a rendere l’idea di ciò. D’altronde come per tutte le cose, ciò che non si conosce lo si può conoscere/cercare di comprendere/descrivere solo attraverso ciò che si conosce. Solo attraverso il nostro mondo. Dopo tale presa di visione però quel nostro mondo è frantumato e non sarà più quello di prima. E noi tendiamo a rimanere nel mezzo, tra la voglia di esplorare e conoscere la nuova realtà, e il rimpianto/malinconia/ricordo del mondo ormai perduto.
Tanto per fare un parallelo che lascia il tempo che trova ma che può forse minimamente render l’idea, fu come se noi oggi mandassimo finalmente una spedizione umana su Marte, dopo tutti questi anni di studi e teorie, ma invece di sbarcare su Marte questa spedizione sbarcasse su ben altro. Come se questi nostri primi ipotetici astronauti-esploratori mandati su quel lontano pianeta da lungo tempo studiato, questi sbattessero su un pianeta nuovo a metà strada tra noi e Marte. Un pianeta mai contemplato. Mai ipotizzato. E non solo. Quando gli astronauti scendono su quella terra ignota, si imbattono anche in gente come loro! Un mondo che non ci doveva essere, mai ipotizzato o ipotizzabile che è anche abitato!
Le incomprensioni. Riguardoa quella a cui si accennava sulla denominazione dello Yukatan ci sarebbe da precisare e farne non un a pagina internet, ma un volume a parte. La prima spiegazione che abbiamo di tale nome a designazione di questa penisola la si deve ad un commentatore spagnolo, frate Toribio di Benaventa (detto Motolinia). Nella sua Storia degli Indios di Nuova Spagna (1541), egli fa risalire l’origine della parola all’equivoco in cui sarebbero caduti i primi spagnoli arrivati nel Nuovo Mondo. Parlando con gli indios di quella costa, alla domanda su come essa si chiamasse questi (gli indios) risposero: “Tectetán, tectetán”. Parola che nella loro lingua secondo Motolinia significava grosso modo: “Non ti capisco, non ti capisco”. Questi primi spagnoli misinterpretarono la risposta come il nome originario di quella terra, e la battezzarono così come meglio compresero quell’espressione, per l’appunto come Yucatán.
Own work based on the blank map of Mexico Author Peter Fitzgerald
Attualmente la conoscenza delle lingue locali, principalmente maya, ha portato gli studiosi a bollare per “fantasiosa” e inesatta questa descrizione.
benché t’àn sia una radice con significato di “linguaggio”, la lingua yucateca non contiene alcuna parola o frase che possa suonare come “Tectetàn”, tantomeno “Yukatan” (il termine più simile, “Come parla?”, è “Uuy u t’an” o “Chu u t’an”), e “non capisco” “Ma tin na’atik”.
https://it.wikipedia.org/wiki/Yucat%C3%A1n
Il punto però, a mio parere, è vedere e considerare ciò in cui credevano all’epoca gli spagnoli. Per loro la questione era tutta un malinteso. Per loro tutta (!) la questione era un malinteso. Secondo quindi la ricostruzione storica di tale denominazione, fin praticamente dall’inizio (1541) gli spagnoli facevano derivare il tutto dalla loro stessa iniziale sicurezza di essersi trovati in una qualche terra dominata da un qualche sovrano di stanza in Cina. Una sicurezza che portava inizialmente gli stessi spagnoli ad interagire con i nativi del luogo (all’epoca indios!) ponendo domande che quelle genti non potevano capire. I nativi/indios a loro volta invece non potevano capire i nuovi arrivati non tanto per la lingua usata, quanto per il loro stesso arrivo. La lingua era la parte secondaria. A domanda “come si chiama questa terra”, la risposta non poteva altro che essere “non comprendo ciò che tu mi dici”. Una risposta che invece era compresa come per “la” risposta corretta. Ammesso e non concesso che questa non sia la derivazione esatta di tale toponimo, essa però fu proprio la situazione creduta vera al tempo. Da tali incomprensioni gli stessi spagnoli credevano di derivare il nome di Yukatan ritenendo che “non comprendo ciò che tu dici” fosse il vero significato di quella terra che fu la terraferma più vicina all’isola di approdo di Colombo.
Questa convinzione veniva riproposta anche quando ormai si era certi che quelle terre non potevano essere l’Asia orientale. D’altronde quando ciò fu chiaro, non è che si passò immediatamente a designare quella terra come un Nuovo Mondo. Tutt’altro! La prima alternativa ipotesi plausibile fu quella di accostarla al paradiso terrestre. Era più “digeribile”/”metabolizzabile” accostare quella terra sconosciuta al paradiso terrestre piuttosto che prendere in considerazione che quelle terre facente parti del loro mondo fossero totalmente nuove e mai nemmeno ipotizzate. Cambiare l’ottica di vedere le cose, un’impresa difficile. D’altronde le descrizioni sembravano combaciare e il fiume Orinoco sembrava corrispondere proprio al fiume del paradiso terrestre. Non per nulla il fiume Orinoco fu scambiato per il fiume del paradiso terrestre. Qualsiasi nuova scoperta doveva essere ricollegata al mondo che conoscevano. Se non era l’Asia, sarà ben stato il Paradiso Terrestre. Niente poteva far sbriciolare la terra sotto i piedi di quei primi europei d’America.
Invece il mondo che loro conoscevano non esisteva più. Quella terra non era la Cina, non era l’Asia orientale, non era il paradiso terrestre. Quando ciò fu chiaro, l’esigenza fu quella di capire dove si fosse. Mancava anche un nome e senza un nome è difficile partire per impossessarsi di ciò. Così un cartografo olandese iniziò a battezzare (!) quelle terre dal nome di un esploratore fiorentino che le stava costeggiando con grande attenzione e che stava inviando in Europa dettagliate indicazioni cartografiche. Le terre di Amerigo Vespucci, l’America.
Quegli stessi uomini indios, quelli che oggi con un nome “politicamente corretto” che ne oscura l’iniziale incomprensione denominiamo “nativi”, non erano nemmeno considerati alla stregua di veri e propri esseri umani. Ci volle un gran convegno per certificarne la natura, quello di Valladolid del 1550. Già prima il papa Paolo III si era espresso in tal senso con la bolla Veritas Ipsa conosciuta anche come “Sublimis Deus” del 2 giugno 1537, proclamava «Indios veros homines esse» (“gli indios sono uomini veri”) e parallelamente scomunicava tutti coloro che avessero ridotto in schiavitù gli indios o li avessero spogliati dei loro beni. Se sulla natura “umana” degli “indios” non vi era più da discutere dopo una cinquanina d’anni di discussione, sulla possibilità di renderli schiavi o meno la discussione, o meglio dire “l’usdanza”, rimase aperta. Infatti quella prima Bolla papale fu di poco effetto se nel corso del tempo dovette essere reiterata e ribadita più volte. Nel 1639 papa Urbano VIII ribadisce il concetto con la bolla Commissum Nobis; nel 1741 tocca a papa Benedetto XIV con la bolla Immensa Pastorum, a cui seguirono altre nel corso del tempo e in tal senso potremmo citare anche l’enciclica Mater et Magistra (1961) di Papa Giovanni XXIII.
D’altronde quello dei “nativi americani” era un mondo che mal si rpestava alla schiavitù e ai ritmi di lavoro dei colonizzatori europei. L’iniziale considerarli alla stregua di animali ne facilitava il “possesso” ma non “l’abnegazione” al lavoro. E poi non che se non si potesse possedere uno schiavo-nativo voleva poi dire non poterne prendere altri da altre terre dove magari il commercio degli schiavi era “attività” da lungo tempo florida. Florido sia per le élite di quelle stesse popolazioni che per le varie potenze che colà si approvvigionavano fin dall’antichità, passando soprattutto attraverso i mercati islamici della penisola arabica. Altre genti di un mondo lontane proiettate, senza che questa volta glielo fosse stato chiesto, nelle nuove terre lontane e sconosciute del pianeta Terra. Legando economicamente terre lontane al prezzo della libertà e della vita degli individui della nostra stessa specie. Collegando senza più titubanze o intermediari le terre del pianeta Terra. Il Nuovo Mondo non era l’America, il nuovo mondo era il pianeta Terra che ne derivò.
Ne potremmo parlare ore, e per ore mai riusciremmo a comprendere questo forgiare del nuovo mondo. Ma lo possiamo vedere ora intorno a noi. In questo momento. In tutta la sua forza. In tutte le sue radicate incomprensioni. Il pianeta Terra è sempre stato uno, con tutte le conseguenze e le influenze che passano costantemente da un contesto all’altro. Ma da quel momento è diventato il nostro pianeta Terra.
Tanto ci sarebbe da dire, senza che ci sia la necessità di dirlo.
Leonardo Massi (Agosto 2020)